Red House Painters – Down Colorful Hill

Francesco Amoroso per TRISTE©

E’ una sensazione davvero straniante riascoltare dopo tanto tempo l’album d’esordio di un musicista che, ignorato dalla stampa mainstream nonostante una carriera ultraventennale e una produzione sterminata e di qualità altissima, ha finalmente, negli ultimi anni, trovato notorietà e fama, per quanto, molto probabilmente, nel suo momento di minor ispirazione e per i motivi sbagliati.

Ed è inevitabile che l’approccio a un disco che, con il passare degli anni, è andato acquisendo uno stato di culto ed è divenuto un’opera imprescindibile del cosiddetto sadcore, riservi emozioni sopite, quasi dimenticate e regali sensazioni nuove.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando una foto virata seppia di un letto, rigorosamente singolo, appoggiato al muro in una piccola stanza squallida e sporca e ricoperto da una coltre di cotone bianca ricamata a mano (di quelle che si trovavano immancabilmente nei corredi delle nonne) presentava al mondo (all’epoca più che altro a una ristretta cerchia di appassionati) gli sconosciutissimi Red House Painters.

Nessuna nota di copertina, nessun credit, solo i titoli scritti nei caratteri tipici dell’etichetta che pubblicava l’album: la 4AD. Allora, era il 1992, tanto bastava per farmi acquistare qualsiasi album a scatola chiusa: se un disco usciva su 4AD e Vaughan Oliver (noto come V23) si occupava della copertina, doveva essere qualcosa di imprescindibile.

Non sapevo chi fosse Mark Kozelek (e continuai ad ignorare la sua esistenza per un bel po’ di tempo), né che genere suonasse la sua band. Non sapevo neanche se fossero inglesi o americani. E, tutto sommato, non mi interessò molto avere queste notizie neanche dopo aver ascoltato l’album. L’amore prescinde da queste cose terrene.

Il personaggio Kozelek non esisteva ancora e con la sua band si limitava a far parlare la musica. Così l’incontro con il songwriter Mark Kozelek fu una sorta di epifania. Grazie a una semplice raccolta di demo (come, tuttavia, scoprii molti anni dopo). I Red House Painters consegnarono alla 4AD un album che, almeno all’epoca, era poco classificabile: un approccio folk rock rallentato, dilatazioni, atmosfere drammatiche e al contempo sognanti e rimandi appena accennati alla new wave (il basso suonava simile a quello dei Cure, a tratti). Slowcore? Sadcore? Che importa?

Si trattava di solo sei brani dagli arrangiamenti tenui, quasi accennati, dalle ritmiche lente e cadenzate ma dalla bellezza cristallina e dolorosa.

Che i Red House Painters fossero poco più che un tramite per il tormentato e introverso Kozelek per esprimere la sua frustrazione esistenziale e esorcizzare i propri demoni non era affatto importante: la sua tristezza, il suo dolore metafisico, erano e sono universali e la sua musica provocava immediatamente un’empatia tale che neanche gli oltre nove minuti della grandiosa Medicine Bottle o i dieci e passa della narcolettica title track potevano risultare in alcun modo noiosi, tanto era inevitabile il coinvolgimento emotivo.

Kozelek è (era?) un cantante capace di trasmettere, con la sua voce indolente eppure calda e appassionante, le mille sfumature dell’emozione e, con le sue storie di incomunicabilità (“You’re building a wall/ higher than the both of us/ So try living life instead of hiding in the bedroom/ Show me a smile and I’ll promise not to leave you”) e di perdita (“Michael, where are you?/ Smile at my excitment the last time you called/ I slipped away to ask you from whereabouts/ I got a lead from your old triple-ex-girlfriend/ She said I heard he lost his mind again/ I said I didn’t know that you ever did”), si ergeva a cantore e interprete del lato oscuro dell’animo umano, dei disperati, dei perdenti, dei depressi e dei rassegnati.

Abituato a pensare alla musica per generi e provenienza, all’epoca non mi venne in mente un parallelo abbastanza evidente a distanza di 25 anni. Kozelek rappresentava una versione folk rock e americana di Morrissey: oggi, ascoltando ancora una volta il suo splendido esordio, mi accorgo come Lord Kill The Pain, il brano più uptempo e sbarazzino (usare virgolette a iosa) dell’album, suoni molto vicino ai numi di Manchester (magari in salsa R.E.M.), sia nell’andamento sonoro che nel testo, ricco di disperazione ma anche di umore nero: “Lord kill the pain/Don’t want to ask you again/Kill my girlfriend/And kill my best friend Sam/Cause I saw them making eyes again/Lord kill the pain/Don’t want to ask you again/Kill my neighbors/And all my family too/They doubt my direction”.


Compiango coloro che, per ragioni anagrafiche, sono stati costretti a scoprire Down Colorful Hill solo dopo aver ascoltato il resto degli album di Kozelek, magari partendo dall’ultimo capolavoro con la sua nuova band, Sun Kil Moon (Benji), o, peggio, scoprendo prima il personaggio Kozelek, leggendo, anche nelle riviste patinate, delle sue controverse dichiarazioni in odor di sessismo, delle sue continue diatribe volgarotte con questo o quel musicista, della sua partecipazione ai film di Sorrentino.

Li compiango, perché un album come Down Colorful Hill, nel quale il dolore e la tristezza assurgono a vette purissime e si elevano a valori assoluti, può essere apprezzato a pieno, temo, solo con un approccio vergine alla materia “Kozelek”.

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