Confessatelo. Confessiamolo.
A tutti nell’arco della vita è capitato almeno una volta di essere gelosi. E la gelosia, lo sappiamo da sempre, è una brutta cosa. “Un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre…” diceva un discretamente noto scrittore che pare sia nato a Messina.
Eppure non possiamo fare a meno di essere gelosi di tanto in tanto. Non dobbiamo vergognarci di ammetterlo perché è un sentimento (?) umano diffuso e quasi inevitabile. Basta, naturalmente, saperla controllare. Insomma, basterebbe non fare la fine di Otello.
Nello specifico della materia di cui dovremmo occuparci qui, però, le cose non sono così semplici: come la mettiamo quando vorremmo far conoscere a tutti l’oggetto della nostra passione, ma non vorremmo mai che altri se ne appropriassero?
E’ una sensazione che, da appassionato scopritore di musica più o meno di nicchia, mi capita sempre di provare: ogni volta che ascolto un artista che mi colpisce non vedo l’ora di condividere la mia scoperta con gli altri eppure, allo stesso tempo, mi sento geloso e possessivo.
E’ successo anche tre anni fa, quando mi è capitato di ascoltare, grazie a un ormai defunto blog privato (di quelli cui si accede solo con la password), l’album d’esordio di una giovane artista neozelandese, sconosciuta, schiva e decisamente scontrosa e ho avuto immediatamente la sensazione di trovarmi al cospetto di un talento incredibile.
Aldous Harding (Hannah all’anagrafe) l’ho sentita subito un po’ una mia creatura, anche perché, al di fuori della natia Nuova Zelanda, era sconosciuta e non sembrava riscuotere particolare interesse. Da quel momento far conoscere il suo nome e la sua musica al maggior numero di persone (e brillare un po’ anche io di luce riflessa) è stata la mia missione: interviste, recensioni, innumerevoli passaggi radiofonici. Ho anche fatto di tutto perché potesse venire a suonare in Italia (e, grazie ai grandissimi organizzatori di Unplugged In Monti, la cosa si è anche realizzata).
Dietro a una scorza dovuta alla timidezza quasi patologica, però, Aldous nascondeva una tenacia insospettabile. Così concerto dopo concerto, tour dopo tour, piano piano, prima in Europa e poi anche negli States, grazie alle sue canzoni sentimentali e inquietanti, alle sue performance evocative e personali e al passaparola di appassionati, addetti ai lavori e giornalisti, la sua fama e la sua notorietà sono cresciute esponenzialmente. Tanto che l’anno scorso è giunta la notizia della sua firma per la prestigiosissima 4AD.
Il primo album di Aldous era stato scritto, inciso e mixato nel paese natio, con un ottimo arrangiatore, ma con scarsi mezzi e con l’artista bloccata dalla paura di allontanarsi dalle sue radici, di tradire le proprie canzoni, scritte nell’arco di molti anni.
Il nuovo lavoro, invece, è stato prodotto (e, in parte, scritto) a Bristol da John Parish (PJ Harvey, Sparklehorse) ed è accaduto un piccolo miracolo: la straripante personalità della giovane di Auckland e il desiderio di sperimentare di Parish si sono uniti in un connubio perfetto e i nove brani che compongono Party, che si tratti di canzoni prettamente folk o di stranianti ballate gotiche, suonano audaci, avventati, sempre in bilico tra classicità e avanguardia, tra melodia e dissonanza, tra carezza e graffio.
Il nuovo album è, così, un lavoro ben più complesso e articolato rispetto al suo incantevole predecessore: gli arrangiamenti, perfettamente misurati, trovano per ogni canzone, che sia grazie a un coro, a sottili inserti elettronici o a un clarinetto, la chiave di volta per esaltarne il fascino e renderle uniche.
Aldous, cambiando continuamente registro vocale, spesso anche all’interno dello stesso brano, unisce umorismo macabro e contorto, sfrontatezza, dolcezza e turbamento, mette finalmente a nudo le mille sfaccettature della sua anima tormentata e gloriosa, trova il coraggio per lasciarsi andare e dare libero sfogo alla sua ispirazione e alle sue peculiarità.
Se, come racconta la stessa Aldous, è stata per molto tempo una paura astratta e indeterminata il motore primo della sua ispirazione, è stavolta la libertà (libertà da ogni vincolo, artistico, sociale e personale) a permetterle di sciorinare capolavori come Imagining My Man, Horizon, Swell Does The Skull o The World Is Looking For You.
Anche il titolo dell’album, Party, del resto, è lì a sottolineare sia la volontà di celebrare tale raggiunta emancipazione che a mettere sotto i riflettori il lato più solare (o, meglio, meno oscuro) dell’arte di questo scontroso e umorale prodigio della musica folk.
Non nascondo che, in questi giorni, il mostro dagli occhi verdi abbia provato ad assalirmi più volte, ma, come diceva quel film (decisamente sopravvalutato e forse mal compreso), “la felicità è reale solo quando è condivisa”.
E così, vincendo un’insensata gelosia, sono davvero felice di poter condividere con un numero sempre maggiore di appassionati la splendida musica di Aldous Harding (anche se il suo ultimo video discinto non mi sta aiutando affatto!).
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