Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte II

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Francesco Amoroso per TRISTE©

Parte I

Indie, Rock, Folk Rock, Wave(?): Epic45 – Through Borken Summer [Wayside & Woodland]
Nella categoria più eterogenea in assoluto (che, tutto sommato, comprende tutto quello che non mi sembrava rientrare nelle altre categorie) ho inserito anche il magnifico ritorno degli Epic45 (per quanto qualcuno potrebbe obiettare che si tratti di post-rock…) che dopo una pausa (troppo) lunga, ben sette anni, tornano con un lavoro atmosferico e intriso delle visioni ispirate al paesaggio campestre della campagna inglese. Rob Glover e Ben Holton (il quale con il progetto My Autumn Empire ha sfornato un lavoro, Oh, Leaking Universe [Wayside and Woodland] con canzoni di una bellezza struggente) questa volta, per il loro viaggio tra memoria e contemporaneità, scelgono sonorità più eterogenee del solito che si muovono tra la loro classica dimensione onirica e soffusa, momenti insolitamente ritmati e pulsanti e elettronica calda e sincopata. “Sognare senza dover chiudere gli occhi” per citare il nostro ottimo Peppe (cui va un fortissimo abbraccio).

Graditissimo e riuscitissimo ritorno anche per i Tunng. Songs You Make At Night è il primo album che riunisce l’originale line up da Good Arrows e riesce alla perfezione nel dichiarato intento di (ri)catturare la magia e l’attitudine che c’era nei primi tre capitoli della discografia della band inglese. Attraverso un percorso che si muove fluttuante tra sogno e realtà, tra conscio e inconscio, Mike Lindsay, Sam Genders e compagni esplorano i confini tra musica organica e sintetica, sbilanciandosi, stavolta, sul versante elettronico.

Mi ha folgorato l’omonimo album di debutto del terzetto inglese The Fernweh [Skeleton Key], che, nelle sue quattordici composizioni, pervase dalla nostalgia e piene di melodie sublimi e inquietanti, suoni in loop e una peculiare strumentazione (violini, dulcimier, flicorni, flauti, sassofoni e mellotron) che crea paesaggi sonori evocativi e arcani, tra un intricato tessuto di chitarre scintillanti e deliziose armonie vocali, trasuda Britishness ad ogni nota.

Incuriosito dalla magnifica “Untold”, ho scoperto gli inglesi Red Red Eyes che hanno debuttato con Horology, un album di pop sognante e barocco con uno sviluppo melodico che richiama un po’ il suono dei Broadcast e un po’ i Beach House più rilassati, con la voce calma, calda e cullante di Laura McMahon che si sposa alle chitarre vibranti e alle tastiere dal suono retrò dando vita a sonorità cinematiche e canzoni bellissime dal suono intricato, vibrante e magnetico.

Matt Randal in pausa dal progetto Plantman, è ritornato a lavorare con Lee Hall scegliendo il nome Ghost Music e pubblicando ad inizio 2018 I Was Hoping You Pass By Here [Arlen], album struggente e bellissimo, estremamente nostalgico e intriso di spleen e composto da dodici canzoni, delicate, quasi ipnotiche, fatte di chitarre gentili, melodie morbide e voci sussurrate.

Realizzare un album come Double Negative [Sub Pop] per una band come i Low, giunta al quarto di secolo di attività, mi è sembrata una sfida, la messa in discussione dei cardini stessi della propria fisionomia (s)low-core, il fare i conti con un presente difficile. Ne è uscito così un lavoro politico, spiazzante, intenso e ambiziosamente moderno dal punto di vista del suono, contaminato dai rumori di una contemporaneità dolorosa, ispida, a tratti persino respingente. Non sarà mai il mio album del cuore dei Low, ma non si può non rimanere a bocca aperta davanti a tanto coraggio.

Con Thunder Follows The Light [Transgressive] Jordan Lee e il suo progetto Mutual Benefit ha voluto carpire “il suono della magia dei momenti ordinari” e, sviluppando la morbidezza orchestrale e le sottili sperimentazioni pop delle sue sonorità, ha centrare il terzo piccolo capolavoro, dopo due album che hanno lasciato a bocca aperta.

Dopo il passo falso dello sconclusionato Eyeland (e il grave incidente che ha visto coinvolto il van con tutta la band a bordo) avevo quasi dimenticato The Low Anthem, mentre il loro The Salt Doll Went to Measure the Depth of the Sea [Joyful Noise] è un album davvero notevole, composto da dodici brevi canzoni, fragili, delicate e oneste, caratterizzate da arrangiamenti acustici conditi di elementi elettronici sottili e frammentati, che ricordano molto da vicino i migliori Tunng di qualche anno fa.

In un anno pieno (come ormai di consueto) di ritorni il nuovo lavoro degli Spiritualized spicca per ispirazione. And Nothing Hurt [Bella Union] riprende il discorso che Jason Pierce e compagni avevano abbandonato ben 6 fa, catapultandomi nuovamente nel suo dolce e cullante mondo di melodie soavi e un po’ strafatte. Alcuni brani sono di una bellezza abbagliante e tanto basta.

Avrei potuto inserire Loma, la band dei due Cross Record con Jonathan Meiburg, degli Shearwater, nel novero dei progetti estemporanei, ma ho preferito essere ottimista e metterli qui, visto che l’omonimo album [Sub Pop], dal tono oscuro e malinconico, nel quale la voce di Emily Cross, accompagnata da sonorità che spaziano dal trip-hop alla minimale ballata per pianoforte alla coralità rock, è un lavoro coinvolgente, vivo e (spero) foriero di nuove delizie a venire.

Una brillantissima conferma, invece, arriva dai Lake Ruth con Birds of America: la voce di Allison Brice è una sorta di incrocio tra Liz Fraser (più intelligibile) e Trish Keenan dal timbro quasi fanciullesco e i suoni della band si ispirano ancora una volta alla sperimentazione sonora degli anni ’60, alla psichedelia barocca, al pop noir, alle colonne sonore, al kraut rock e al jazz, confezionando un album profondo, stimolante e pieno di splendide melodie.

Tra l’indie e sonorità che a tratti ricordano il punk e il post punk (in maniera più o meno evidente) sono arrivati quest’anno alcuni esordi davvero promettenti. Quello che mi ha coinvolto e che ho amato di più è forse il più sghembo: Melyn (Giallo) [Libertino], del trio al femminile Adwaith, interamente cantato in gallese, partendo dalle sonorità scarne del post punk, con il basso e la batteria a risuonare cupi e le chitarre nervose che pennellano riff contagiosi, si caratterizza per l’eclettismo dell’offerta sonora e per  la voce inquieta e nostalgica di Hollie, risultando grazie a un suono in continua evoluzione e un’attitudine sfrontata, un debutto di pura bellezza.
Altrettanto eccentrico e inatteso è stato Yes I Jan [Lost Map] del trio Bas Jan, formato dalla cantautrice inglese Serafina Steer. I richiami alle Slits o alle Raincoats sono evidenti, soprattutto per il tentativo di coniugare melodie e dissonanza, pop e sperimentazione. Un lavoro dal fascino inconsueto e ambiguo, malinconico e sensuale, ispiratissimo. I neozelandesi Bad Sav sono un classico trio rock proveniente da Dunedin, che hanno fatto da pochissimo uscire un omonimo album d’esordio [Fishrider/Occultation] chitarristico, sfavillante e abbagliante che esplora con dieci brani, tesi e asciutti, il suono dell’indie rock degli anni ’90, tra riferimenti shoegaze, una bella dose di psichedelia, tanta energia e ritmi incalzanti. La loro elettrizzante alchimia sonora, prodotta dall’accostamento di una voce inquieta ed evocativa con un chitarrismo a tratti feroce, ammantato di fuzz e distorsione, produce un ibrido che accomuna mirabilmente il dunedin sound e il post punk.
Davvero degni di nota anche l’omonimo esordio delle Goat Girl [Rough Trade], “dolcissimo e sfrontato” (cit. Giordani), disperato eppure dal suono freschissimo, e Silver Dollar Moment [Heavenly], debutto di The Orielles, altro trio inglese al femminile che esplora tutto l’arco “istituzionale” dell’indie degli ultimi tre decenni, dal sognante dreampop degli eighties, ai riff di chitarra anni novanta, fino ai brani intrisi di ritmi funky e synths del decennio successivo.
Dell’esordio degli Shame, Songs Of Praise [Dead Ocean] avrete già sentito parlare ovunque, ma a ragione: erano anni che non si ascoltavano canzoni così autentiche  e sincere, rabbiose e urgenti e allo stesso tempo melodiche e dalla presa immediata. Albione ha rialzato la testa. E lo ha fatto anche con il secondo lavoro degli Idles, importante sin dal titolo, Joy as an Act of Resistance [Partisan] che mescola rabbia punk, sarcasmo e la volontà di fare affermazioni forti e coraggiose. La voce strillante Joe Talbot (quasi un growl a tratti), il basso pulsante e le chitarre stridenti e nervose convogliano un chiaro richiamo alla necessità di unità, positività e amore soprattutto in tempi davvero bui come questi.

Anche il folk-rock, pur senza vertici assoluti o album epocali, ha dato buoni frutti quest’anno a cominciare dal terzo lavoro dei BarbarismsWest In The Head [A Modest Proposal] di cui, tuttavia, pur consigliandone l’ascolto spassionatamente (è, a mio modesto avviso, il miglior album della band Americana-Svedese), ho qualche reticenza a parlare essendo personalmente coinvolto nella sua uscita; notevole anche l’omonimo esordio dei Foxwarren [Anti] di Andy Shauf il cui suono rilassato e cullante è influenzato dal folk rock degli ultimi quaranta anni, a partire da The Band e Crosby, Stills & Nash, per arrivare ai più attuali Elliot Smith e Vetiver; gli australiani Mallee Songs, dopo un ottimo esordio, sono tornati con Suburban Horse [Dusky Tracks], una collezione di folk astratto e delicata psichedelia, dove ogni traccia esiste in uno spazio sfocato tra malinconia e sollievo che, purtroppo, è passato per lo più ingiustamente inosservato; lavoro alla loro altezza anche per The Innocence Mission: Sun On The Square [Bella Union] che forse risente dell’accecante bellezza del suo predecessore ma non abbassa di un millimetro lo standard compositivo della rodata band americana.

Indie pop, dream pop, bedroom pop, tweepop, jangle pop: The Goon Sax — We’re Not Talking [Chapter Music]
L’anno scorso non avevo dedicato una sezione specifica a quello che è uno dei miei generi d’elezione, forse perché non c’erano abbastanza album che mi avevano colpito. Quest’anno sono felicissimo di poterlo fare grazie a una rinascita (o a un rinnovato interesse da parte mia) sia del classico indie pop chitarristico che del più etereo dreampop (che a volte sconfina quasi nello shoegaze).
Tanti album che mi hanno ammaliato, ma nessun dubbio circa quello che ho amato e ascoltato di più: il secondo lavoro di The Goon Sax, We’re Not Talking, racconta, con dodici deliziose canzoni pop, il passaggio alla post adolescenza. Laddove il precedente lavoro era esuberante e ingenuo, il nuovo è più meditato, oscuro e contorto. Con una produzione accurata, seppure senza troppi orpelli, le canzoni di “We’re Not Talking” dimostrano la notevole maturità raggiunta nel songwriting e l’eclettismo sonoro dei giovani australiani: tra archi, corni, nacchere e campanacci, il loro pop riesce sempre a coinvolgere e sorprendere e “Make Time 4 Love”mi commuove, anche per la somiglianza con certe cose bellissime di The Go Betweens . L’adolescenza è una malattia dalla quale non si guarisce mai completamente. Per fortuna.

Mi è capitato di citarli spesso, ma non ne ho mai parlato in maniera accurata eppure l’esordio dei giapponesi WallflowerEver After [Fastcut] una album di indiepop chitarristico straordinario e scintillante che rientra alla perfezione nei canoni del genere e sciorina brani deliziosi e tenerissimi, dal ritornello immediato. Con titoli come “I Wish Spring Would Last Forever” e il tocco di Ian Catt, siamo dalle parti (nobilissime) della Sarah e gli appassionati del genere avranno già capito le coordinate di questo lavoro.

Ancora dall’estremo oriente, stavolta dalla Corea, arrivano i Say Sue Me con Where We Were Together [Damnably], un disco fatto a regola d’arte, sia quando  spazia verso il surf-pop, sia quando vira verso un jangle pop di matrice chiaramente europea (possiamo dire scozzese?). Album indolente e poetico che mi ha conquistato ascolto dopo ascolto, tra rimandi a sonorità amatissime e titoli struggenti come “The Courage To Become Somebody’s Past”.
E, dato che ci troviamo in estremo oriente, vale la pena di segnalare anche Phantasms [Boring Productions] dei filippini The Strange Creatures un album semplice e genuino, fuori dal tempo, dream pop chitarristico (ben condito dalle tastiere) che convince e avvince solo grazie alla forza delle melodie e a canzoni dolcissime e spensierate.

Non lontano, in Australia, è uscito, seppur grazie alla Sub Pop, il disco di guitar pop dell’anno (e forse del lustro), Hope Downs, esordio dei Rolling Blackouts Coastal Fever il cui suono richiama in maniera evidente decine di band che abbiamo tutti già ascoltato e amato: le straordinarie costruzioni melodiche dei compatrioti Go-Betweens, il dinamismo dei migliori Teenage Fanclub, il leggendario suono della Flying Nun anni ’80, ma anche i primi R.E.M. o i Television di Tom Verlaine più pop e orecchiabili. Eppure, grazie a canzoni dall’impatto istantaneo e alle eccitanti linee di chitarra che si intrecciano in maniera vibrante, Hope Downs suona fresco, eccitante e vitale.

Non tradiscono le aspettative (e come potrebbero?)  gli svedesi Alpaca Sports  con From Paris With Love [Elefant]. Andreas e Amanda (anche stavolta con Hampus Öhman-Frölund alla batteria e Lisle Mitnik (Fireflies) che ha collaborato alla scrittura dei brani e suonato di tutto) hanno scritto una raccolta di dodici canzoni piene di nostalgia e sincerità, di sentimenti tenui, di struggenti carezze e baci delicati. E, naturalmente, di pop cristallino e luminoso e melodie brillantissime e irresistibili. Ancora una volta mixato e prodotto da Ian Catt (il genio dietro il suono di The Field Mice, Trembling Blue Stars, Saint Etienne, The School), e con la partecipazione di Gary Olson (The Ladybug Transistor),  il nuovo album grazie ad arrangiamenti più accurati e a una maggiore profondità nella scrittura dei brani è addirittura un deciso passo avanti nella crescita musicale di una band di eterni adolescenti destinata agli adolescenti di tutte le età.

Happily Ever After [Annika], l’album d’esordio dei Clay Hips è composto da dieci canzoni gentili, suggestive e brillanti che sarebbero perfettamente a proprio agio nel catalogo della Sarah Records, così come in quello della gloriosa Él. Condito con arrangiamenti dal gusto squisito e cantato dalla incredibile voce di Kenji, che sembra nata per cantare queste canzoni, Happily Ever After è un lavoro senza tempo, una questione di cuore, un gesto d’amore da custodire gelosamente, come una polaroid del passato cui troppa luce rischierebbe di togliere colore e nitidezza.

Coordinate non troppo dissimili per il duo The Last Detail, formato da Erin Moran (A Girl Called Eddie) e Mehdi Zannad, (Fugu) che nell’omonimo esordio [Elefant], volutamente fuori dal tempo e permeato da una vena malinconica, regalano senza sosta delicatezze romantiche, zuccherose caramelle sixties e fascinose ed eleganti ballate, perfettamente arrangiate.

In Hardly Electronic [Merge], brillante e magnificamente arrangiato primo lavoro dal 2006 dei newyorkesi The Essex Green, ritorna felicemente il loro suono caratteristico: splendide armonie vocali, briose melodie sixties, handclapping, bassi pulsanti, synth smaglianti e una profusione di scintillanti chitarre per quattordici canzoni che sorprendono per freschezza, ispirazione e profondità del songwriting.

Di difficile collocazione è l’incredibile saggio pop di Tony MolinaKill The Lights [Slumberland] dura 15 minuti per dieci canzoni e presenta il suono del veterano californiano vicino ai Teenage Fanclub e a tanto jangle pop presente e passato. Fatto di canzoni brevissime e dirette, (la media è intorno al minuto e qualche secondo) vere e proprie minuscole pietre preziose, Kill The Light è un limpido esempio di minimalismo pop.

Ancora in ambito jangle pop ho amato molto l’esordio omonimo degli Young Scum di Chris Smith da Richmond, Virginia, che con le sue chitarre scintillanti e agrodolci e la sua voce morbida e vagamente indolente mi ha fatto conoscere canzoni sincere, urgenti, immediate e coinvolgenti.

Alex Naidus, che faceva parte della prima formazione dei Pains Of Being Pure At Heart, ha fatto uscire un album dal titolo ‘Oh Boy’ [Tear Jerk] con la sua nuova band Massage. Impossibile non trovarlo subito adorabile e sorprendente. Melodie spontanee, naturalezza nella scrittura, indiepop allo stato puro, tra rimandi jangle pop e momenti più irrequieti e frenetici è un album senza pretese che finisce per diventare pressoché indispensabile.

È stata notevolissima la maturazione degli Hater, giovane band di Malmö, che con Siesta [Fire] hanno dimostrato di aver ampliato lo loro spettro sonoro e incrementato la capacità di cesellare canzoni pop coinvolgenti e di qualità. La scrittura è divenuta eclettica, minuziosa ed elaborata, senza che sia andata perduta l’immediatezza pop e la carica drammatica che contraddistingue il suono della band, avvicinandoli sempre di più alla perfezione pop. Ancora Svezia e ancora Malmö: gli Echo Ladies hanno debuttato con Pink Noise [Sonic Cathedral], album in bilico tra indie pop e post punk, quasi che gli Hater avessero avuto una svolta dark-wave. Le canzoni che compongono l’esordio sono drammatiche ed eccitanti e richiamano i Cure come i Cocteau Twins ed è difficile chiedere di più a una band esordiente. Sempre svedesi, ma di Götheborg, sono i giovani Holy Now che hanno esordito con Think I Need The Light [Lazy Octopus], un disco di guitar- pop luminoso e nostalgico. La voce eterea e potente, il ritmo incalzante e le melodie semplici ed efficacissime sono i tasselli di un album di indie pop delicato, tenero e malinconico, ma intenso ed energico.

Nessuno si aspettava più che The Sunbathers arrivassero all’album di debutto, eppure il 2018 ha visto l’uscita di A Weekend Away With​.​.​. [Jigsaw] traguardo raggiunto dopo anni di silenzio. L’attesa è stata ripagata da una piccola gemma di indie-pop che trasudano grazia, semplicità e struggente nostalgia. Le chitarre acustiche e il cantato agrodolce di Julie, i ritmi rilassati, una bossa quasi accennata sono i tratti distintivi di un lavoro malinconico e sincero dal fascino discreto e sommesso.

Non è possibile dimenticare, infine, The Oddfellows’ Hall [Emotional Response], il nuovo lavoro di The Ocean Party, uscito a pochi giorni dalla scomparsa del suo giovane compositore Zac Denton. Fa ancora più male pensare a questa funesta circostanza se si pensa che la prolifica band australiana ha raggiunto con questo lavoro il proprio apice compositivo e interpretativo, grazie a canzoni sentite e melodicamente perfette e ad arrangiamenti eclettici ed efficacissimi. Nell’ultimo verso di uno dei brani più belli dell’album, Rain On Tin, Zac scriveva: “My biggest fear is that I’m forgettable“. Sarebbe davvero importante e giusto che, invece, non fosse così. The Oddfellows’ Hall è un album che meriterebbe di essere ricordato per tanti motivi.

 

6. Post Rock, Ambient, Classica Contemporanea, Musica Strumentale, Elettronica: Dakota Suite, Dag Rosenqvist and Emanuele Errante — What Matters Most [Karaoke Kalk]
Quelli qui riuniti, in maniera piuttosto arbitraria, sono ambiti musicali che mi affascinano moltissimo ma che, anche quest’anno, non sono riuscito davvero ad approfondire come vorrei.
Tante ragioni, non ultimo l’affetto sincero che nutro per Chris Hooson, che a ogni nuova uscita mi permette di entrare nella sua vita emotiva e emozionale, mi hanno portato ad amare profondamente la nuova collaborazione tra Dakota Suite, Emanuele Errante (già accanto a Hooson in The North Green Down) e Dag Rosenqvist (From The Mouth Of The Sun). What Matters Most impiega l’ambient music e un impianto orchestrale per rivestire le lente e scarne note acustiche e il songwriting semplice ma minuziosamente rifinito di Hooson. Sono quattro canzoni e sei brani strumentali che si muovono tra modern classical e jazz, ammantate, grazie a Errante e Rosenqvist, di sonorità ambientali e atmosferiche che spaziano da note di pianoforte a drammatici drones.

Penalizzato forse dall’argomento e dalla eccessiva durata, la collaborazione tra Cédric Pin e Glen Johnson, entrambi già nei Piano Magic, The Burning Skull [Second Language] è passata quasi inosservata. L’ho trovata invece straordinaria e profondissima: un album di 18 tracce tra canzoni e intermezzi strumentali dove si alternano paesaggi sonori gotici, spettrali riverberi industriali, eteree malinconie, ritmi pulsanti, field recordings e drones. La vocalità quasi parlata di Johnson esamina in maniera quasi entomologica, ma mai distaccata, la realtà odierna, la vita quotidiana e quella spirituale,  la morte, la solitudine, la depressione, le religioni. Non è un lavoro facile, ma entrarvi è stato per me decisamente appagante.

Abbastanza inclassificabile (avrei potuto piazzarlo tra le cantautirci, ma anche nel dream pop) è Y [Sonic Cathedral], breve e intenso album dell’argentina Paula García, in arte Sobrenadar, che si traduce più o meno come “galleggiante sulla superficie di un liquido”, che è poi la descrizione perfetta della sua musica. Per la sua prima uscita internazionale ha deciso di riunire in un album i suoi due EP, Dromer e Habita, e la sua musica che spazia tra ambient, downtempo,  richiami agli Air, ai Boards Of Canada e a Grouper, con un mix di ritmi riverberati, elettronica, chitarre e voce è un’ammaliante e stranente forma di dreampop che mi ha letteralmente travolto e stregato.

Tiny Houses e Anemone Red sono due album, usciti in un solo anno, degli Hour, una sorta di “super-gruppo” proveniente da Philadelphia e formato da membri di band locali quali Nap, Ylayal, Friendship e Utah. Interamente strumentali, mi hanno affascinato e coinvolto con il loro sound rilassato e placido che sembra quasi provenire dalla Louisville degli anni ’90, ed è un sapiente composto di slowcore e di folk amalgamato al post-rock di una volta, con aggiunta di elementi ambient, di drones e di un pizzico di math rock, il tutto condito con discrezione da intensi field recordings.

In ambito post rock nonostante alcune uscite notevoli, anche di pezzi da novanta della scena, mi sento di segnalare solo il graditissimo ritorno dei Giardini di Mirò con Different Times [42 Records], album che riprende il discorso interrotto ormai da parecchio e che si fregia della collaborazione di artisti del calibro di Robin Proper-Sheppard (Sophia) e Glen Johnson (Piano Magic). Nelle sue sonorità che spaziano dal post rock più classico a un pop oscuro e minimale ho ritrovato sensazioni perdute e quella grande voglia di concedersi nuovamente al mondo che rende la band reggiana un vessillo della musica più vera e sincera.

Conosco pochissimo dei Zura Zaj. Il loro Small Obstacles [Home Records] me l’ha fatto conoscere Raffaello e mi ha subito conquistato per quell’amalgama di chitarra, corno francese e violino che si combinano disegnando intrecci armonici acustici allegri o struggenti di grandissima suggestione. Un lavoro diverso e grandemente affascinante da parte di un terzetto belga (di Ghent) che meriterebbe un più ampio riconoscimento.

L’etichetta di Singapore Kitchen è sempre stata molto attenta alla diffusione di certe sonorità “altre”. Quest’anno ha deliziato le mie orecchie con il nuovo lavoro della greca Zinovia Arvanitidi, Ivory, album composto da dieci miniature pianistiche che convogliano un romanticismo sereno e riservato, dove le melodie si alternano a atmosfere sospese con risultati suggestivi e coinvolgenti (soprattutto dove arrivano gli archi e nella splendida Fluttering che comprende eterei vocalizzi).

Grid Of Points [Kranky] mi ha fatto riabbracciare Liz Harris in arte Grouper a quattro anni di distanza da Ruins, di cui riprende le sonorità rarefatte ed intimamente emotive. C’è solo un piano lontano e riverberato ad accompagnare la voce eterea della musicista americana, senza che tuttavia, tale minimalismo infici la grande comunicativa delle sonorità di Grouper. L’ennesimo saggio di struggente minimalismo che non potrà che convincere anche voi.

 

Addendum. Ep: The Yearning — Take Me All Over The World [Elefant]
Quest’anno, stilando questo lunghissimo elenco, mi sono reso conto di aver amato anche molti e.p. che vorrei quantomeno segnalare: in ambito cantautorale senza dubbio gli e.p. di Lou RichardsGood Woman e Fergus, Purple Road, nonché quello dell’estemporaneo trio Boygenius formato da Lucy Dacus, Julien Backer e Phoebe Bridgers, The Lost Gardens della giovane inglese Rosie Caldecott e l’australiana Stella Donnelly che ha esordito per Secretly Canadian con Thrush Metal, e.p. dalla forte personalità.
Tra indie pop e dream pop, oltre allo splendido lavoro di The Yearning, che conferma in toto la loro immensa classe, emerge l’esordio della straordinaria australiana HatchieSugar & Spice, che unisce il pop adolescenziale alle trame dream e shoegaze dei Cocteau Twins, Interpunktion dei The Bv’s che si confermano alfieri di un indiepop a cavallo tra suggestioni Sarah Records e wave, Self-destruct Reality degli inglesi Jetstream Pony di Beth Arzy e compagni, gli oscuri americani Primitive Lips e gli scozzesi Kelora che, con Calpol, confermano di essere una band da tenere d’occhio.
Sempre attivissima su questo formato, anche la spagnola Elefant che ha presentato due piccole e preziose gemme negli ep dei Carbon Poppies, Rain On My Face e nella fantastica collaborazione vintage tra la spagnola Lia Pamina e l’italiano Dario Persi con So Far Tonight.

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2 pensieri su “Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte II

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