Hilary Woods – Colt

Agnese Sbaffi per TRISTE©

Ferma nel traffico della tangenziale mi è tornato in mente un gioco che facevo spesso da bambina.

Con penne e matite creavo una specie di rotatoria stradale a forma di esagono allungato, disponevo disordinatamente le mie macchinine all’interno di quel recinto fino a occuparlo tutto, e il gioco era riportare l’ordine e la corretta viabilità del traffico sulla scrivania.

In pratica, inscenavo un maxi ingorgo per poi provare a risolverlo. Ero una specie di deus ex machina con la paletta ma senza patente.

Mi stupisco sempre dell’intuizione dei bambini: ricreare situazioni ingarbugliate per provare ogni volta a trovarne un senso, prima che i clacson degli automobilisti incazzati si trasformino in un coro rabbioso e senza controllo. D’altronde non l’ho inventata io la Psicomagia.

Forse Hilary Woods non ne sa nulla né del traffico di Roma né di Jodorowsky, ma il suo album d’esordio credo sia per lei proprio questo: un elegante ed efficace modo di rivivere e condividere angosce, delusioni e abbandoni che hanno segnato la sua vita. Un modo per capire ed elaborare, trasformando l’esperienza individuale in un sentire comune.

Colt (uscito per Sacred Bones) è il suo primo long playing dopo il successo come bassista nel gruppo brit-pop JJ72. Si compone di otto tracce che ricreano un’atmosfera onirica e riflessiva, in cui si intrecciano delicate stratificazioni strumentali: il pianoforte, gli archi, i morbidi droni e un synth sognante, accompagnati da una voce eterea e intensa.

Si scava in profondità nei mondi interiori dell’autrice per uscirne un po’ più consapevoli e risoluti, si celebra la solitudine quando vissuta come rituale di purificazione e fonte di ispirazione, vengono messi in scena i mostri che popolano una mente sensibile in cerca solo di un po’ di quiete.

Inhaler è un ottimo titolo per iniziare, è la boccata d’aria che si prende prima di entrare in apnea, un lento respiro che introduce al minimalismo melodico del disco. Un motivo ciclico di pianoforte guida la voce densa della Woods avvolta dal riverbero, dal synth e da qualche arpeggio.

Trattenendo il respiro, immersi nelle acque profonde, si toccano momenti vicini alla trance. La ripetizione di armonie e singole note di synth creano un’atmosfera dilatata e ipnotica, che accarezza come una ninna nanna (Take Him In, Kith).

Tra il fantastico e il terreno, tra l’acustico e l’elettronico si attraversa tutto l’album fino alla più ritmata e luminosa Jesus Said, un battito insistente, una ricerca della catarsi per abbandonarsi, per sfuggire al rumore della mente e riappropriarsi del corpo e del suo sentire.

Sempre immersi fino al collo in un ambiente denso, carico di emotività, sembra di spalancare le porte del Bang Bang Bar (Roadhouse, Twin Peaks) giusto in tempo per ascoltare l’intro di un brano di Badalamenti. È Black Rainbow, un lento incedere incantato attraverso il buio della notte, che accoglie ciò che di giorno difficilmente resiste, che evapora alla luce del sole, come svanisce indefinita anche questa traccia.

Un percorso notturno tra spazi solenni e sfumati, ma controllati e mai eccessivi, tra uno scuro post-rock e un fluttuante minimalismo classico. La colonna sonora di una notte passata a riflettere su fantasmi lontani ma ancora presenti, su un’assenza tanto profonda da assumere il profilo netto di una presenza ingombrante e totalizzante.

Con l’età adulta le penne e le matite ho iniziato a usarle più per scrivere che per contenere, che poi forse è la stessa cosa?

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