Francesco Amoroso per TRISTE©
Stasera (3 ottobre 2018) la mia squadra di calcio del cuore giocherà in Champions League contro una tra le squadre inglesi più titolate (la più titolata, a livello internazionale) e tra le più famose al mondo: il Liverpool FC.
Per chi come me ha cominciato a seguire il calcio nella seconda metà degli anni 70, i Reds rappresentano una delle squadre con maggior fascino e tradizione. Giocatori come Kevin Keegan o Kenny Dalglish fanno parte del background e dell’immaginario calcistico di molti di noi (ultraquarantenni) e lo stadio di Anfield Road, con la tribuna Kop, è un posto che ha qualcosa di leggendario per ogni amante del calcio. Al Liverpool poi, sono legati (suo malgrado) nei due disastri sportivi europei più terribili: la tragedia dell’Heysel e quella di Hillsborough.
Eppure, ciò nonostante, quando penso a Liverpool, mi vengono più spesso in mente i Beatles che Keegan, o gli Echo & The Bunnymen e i Teardrop Explodes piuttosto che la Coppa dei Campioni vinta all’Olimpico contro la Roma.
Liverpool è per me, legata alla musica almeno quanto lo è al calcio. Forse di più.
Tuttavia, non fosse per Nick Ellis, chitarrista e songwriter proveniente, appunto, da Liverpool, di cui ho avuto già occasione di parlare l’anno scorso, dalla città dei Reds era un po’ di tempo che non arrivava nulla di particolarmente interessante.
Dopo il lavoro dello scorso anno (Adult Fiction) dedicato al passato della città, alla sua architettura e ai suoi personaggi, Nick torna con un nuovo lavoro (il terzo in tre anni) stavolta incentrato su uno degli angoli più iconici della città inglese: il suo “Speakers’ Corner”, un podio di ferro che si trovava al Pier Head, centro dell’attività marittima di Liverpool, costruito nel 1973 dallo scultore Arthur Dooley e dall’architetto Jim Hunter su commissione dall’Unione dei lavoratori dei trasporti, usato per un ventennio da manifestanti e sindacalisti, fino a quando non è stato rimosso dal Consiglio Comunale nel 93 e mai sostituito.
“Sentivo che questo era un gesto simbolico molto repressivo, come togliere il punto focale alla voce della città. La scomparsa e la successiva mancanza di un “Angolo degli oratori” nella città mi ha lasciato preoccupato, così ne ho inventato uno mio”.
Questa è, in poche parole, la genesi di un lavoro affascinante e complesso che racchiude in sé, in dodici brani, la poetica e il suono di Nick Ellis che, album dopo album, va raffinando le proprie capacità di songwriter e interprete.
Speakers’ Corner racconta una città e una nazione incerta e ansiosa, colta nel momento di un grande cambiamento culturale, sociale e politico. In ognuna delle tracce, ispirandosi a fatti reali (la protesta e l’occupazione della fabbrica da parte dei lavoratori della Fisher Bendix del 1972, lo sciopero dei lavoratori dei trasporti di Liverpool che, nel 1911, portò a una sollevazione generale in tutto il paese), all’opera di scrittori e poeti più o meno noti (B.S. Johnson, Anne Quin, Paul Birtill) ad artisti come René Magritte (quantomeno nella copertina del disco), a “l’invenzione dei cappelli a bombetta, la storia del General Post Office, i nightclub di Liverpool da tempo dimenticati, la psicogeografia dei romanzi sussurrati, clandestini e le radici del surrealismo britannico”, Nick ha creato personaggi di fantasia (ma terribilmente realistici) che si arrampicano sul podio a raccontare le proprie storie.
Alcune canzoni, come già accadeva nel lavoro precedente, sono di una bellezza e una grazia assolute, romantiche, delicate, calde (Blue Summer, Impratictical Ideas, Hearts And Minds, The She Club Mystery), mentre altre sono più dirette e sincopate (I Get Love, Wrote My Baby A Letter), ma tutte sono vivide e vitali. I suoni spaziano dal rock’n’roll classico al jazz, da numeri di folk-noir parlato alla maniera di Bob Dylan a brani strumentali di sola chitarra, che si inseriscono perfettamente nella tracklist: uno di questi (Mick’s Walk) è un omaggio al grandissimo Mick Head (anche lui di Liverpool) e alle sue “canzoni eteree”.
Sostiene Nick, nella splendida “lettera aperta” che accompagna l’album, che “nonostante il dominio della tecnologia moderna sui metodi di comunicazione della persona media, il passaparola è ancora il re – il folklore prevarrà sempre. E il folklore è meglio conservato nelle canzoni, nelle storie e nelle notizie che scambiamo gli uni con gli altri, da persona a persona”.
Stasera guarderò la partita di calcio tra il Napoli e una squadra leggendaria e, se anche le cose non dovessero andare bene (come è possibile), mi consolerò ascoltando la voce calda e la chitarra di uno scouser che, come pochi di questi tempi, sa raccontare la propria città, le sue storie e i suoi abitanti.
(Se vinciamo sono pure disposto ad ascoltare, per una volta, Gigi D’Alessio. Ma non più di una canzone!)
Pingback: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte I | Indie Sunset in Rome