Le firme di TRISTE©: il 2021 di Tiziano Casola

Tiziano Casola per TRISTE©

Con qualche giorno di ritardo, anche io mi accingo a tirare le somme di questo 2021 di ascolti (che tanto si sa, entro l’Epifania, o poco oltre, vale ancora tutto).
Togliamoci dunque subito il dente: quanti e quali dischi mi resteranno di questo 2021? La risposta è due, As days get dark degli Arab Strap e Back to Mono dei Courettes.

Nel primo caso si parla per me di veri fuoriclasse. Un disco cupissimo, ma sempre tirato avanti a ritmi sostenuti, che in più di un’occasione mi ha fatto pensare agli Afghan Whigs dei tempi d’oro o ai dimenticati Whipping Boy, se non addirittura, per un certo approccio sermonesco al cantato, ai Current 93 di Island (per credere, confrontare con Crowleymass Unveiled).

La cosa migliore del disco degli Arab Strap? Per me il fatto che, da qualunque punto lo si ascolti, As days get dark sia sempre pronto a punzecchiare l’attenzione e a martellare nel petto con quelle pompatissime e gustosissime batterie. Già, perché lo stesso tipo di batterie elettroniche che in qualunque altro disco mi avrebbero infastidito per eccessiva meccanicità e assenza di umano sudore – da qualche tempo non digerisco più di tanto i dischi troppo costruiti in studio – qui mi appaiono invece vivissime. Sarà forse perché nel caso degli Arab Strap la scrittura delle canzoni è solidissima anche e soprattutto dal punto di vista ritmico? Direi di sì. Insomma, bello, bello, bello.

E poi la copertina! Se sono lontani i tempi in cui si aveva il tempo e la curiosità di studiare per ore i dettagli dei booklet di dischi faticosamente acquisiti tramite ordini in negozio, oggidì, nel continuo bombardamento di immagini alle quali siamo costantemente sottoposti, mi sento autorizzato ad affermare che da anni nessun’altra cover attirava la mia attenzione quanto quella di As days get dark.

Giudicate un po’ voi:          

A proposito di copertine, il secondo posto dell’anno spetta invece per me ai Nation of Language, che con i colori del loro A way forward mi rimandano alle luci e ai semafori della sigla finale di Cara dolce Kyoko, mia ossessione di bambino, all’epoca disponibile solo sulle reti regionali del Lazio e, ci metterei la mano sul fuoco, prima educazione per molti a un certo tipo di suoni (le immagini a cui faccio riferimento sono queste). Un disco, quello dei Nation of Language, di cui tra l’altro sono venuto a conoscenza proprio su queste pagine grazie, alla splendida recensione in forma dialogica di Francesco Giordani e Francesco Amoroso, un vero tocco di stile da autentici umanisti del Quattrocento!

Ma torniamo al podio.

Anche nel caso di Back to Mono dei Courettes, per quello che vale la mia opinione, si parla di un disco da veri fuoriclasse, ma in questo caso meno noti. Opera magna di manierismo philspectoriano, Back to Mono consegna al riverbero – e dunque all’eternità – grandi classici mancati del doo wop come Until you’re mine o la splendida R.I.N.G.O., dedicata al più simpatico dei Beatles. Che, tra parentesi, sicuramente non era John Lennon, almeno a giudicare da quel che si vede nei filmati recentemente messi a disposizione da Peter Jackson.

Ecco, quello dei Courettes è il mio disco dell’anno, quello che non poteva non entrarmi nel cuore. D’altronde, il duo brasil-danese tocca tutti i miei punti deboli, dai riferimenti beatlesiani al sound da girl band alla Shangri Las.

In terza posizione, sul podio, metto Coral Island dei Coral, felice riscoperta di una band che mi faceva sognare nei primi anni duemila, quando aspettavo la sera tardi per poter guardare i videoclip su Mtv Brand New. Certo, niente mi ridarà mai il brivido di una Dreaming of you scoperta al momento giusto di un’adolescenza pre-internet veloce, ma il suo mestiere il disco fa eccome. Se si parla dei Coral si parla di pura perfezione pop nella linea della più rispettabile tradizione indie britannica. Autentici Joshua Reynolds delle chitarre, dopo vent’anni i Coral mi suonano ancora splendidamente piovosi come l’orrido Merseyside da cui provengono e caldi come i thè delle cinque o le stufe a pellet che, ne sono certo, spopolano da quelle parti.

E poi, ultimo momento nostalgia, poter ascoltare nuovi pezzi dei Coral mi fa inevitabilmente tornare alla mente una giornata perfetta di sette anni fa in cui, assieme all’amico Francesco Giordani, vidi un Bill Ryder Jones in formissima in un fangosissimo festival gallese.

Per il resto, in ordine sparso, mi è piaciuto il ritorno dei Duran Duran (mai l’avrei detto), così come l’album Sempre del mio concittadino Pawa, da molti bistrattato per le scarse qualità vocali, ma bravo ragazzo che sa come scrivere canzoni sincere. Per un istante mi sono invaghito dei The Buttshakers e del loro singolo Back in America, per poi ricredermi col disco, dal quale trapela un passato da frequentatori di qualche conservatorio privato per turnisti. Non che ci sia nulla di male eh, ma è chiaro che questo toglie un po’ di magia e in certi contesti è sempre consigliabile puzzare davvero. Mi aspettavo qualcosina in più dai dischi dei We Are Scientists e dei Catenary Wires, ma va bene anche così.

Infine, troppo tardi (letteralmente oggi) mi sono accorto, leggendo gli altri resoconti annuali di Triste Sunset, di essermi perso almeno tre dischi che sicuramente avrei amato, se solo me ne fossi interessato al momento opportuno (ma recupererò nel 2022). Mi riferisco a Ski Saigon e Painted Shrines, ma soprattutto ad Uncommon Weather di The Reds, Pinks & Purples, amore al primo ascolto e che mi rimanda agli Allo Darlin’ più ariosi e quel gloriosissimo guitar pop in accordi maggiori che ti accompagna in macchina felice sulle strade di campagna – non necessariamente pittoresche, la Pontina va già benissimo – e ti fa venire la voglia di saperla scrivere anche tu qualche canzone così.

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