Beach Fossils – Bunny

Francesco Giordani per TRISTE©

Come non di rado capita, mi è stata sufficiente una singola canzone per realizzare che Bunny, quinto album in studio dei newyorchesi Beach Fossils, è un lavoro baciato dalla più luminosa ispirazione. Ascoltata in palestra mentre ero alle prese con un’estenuante sessione di addominali e fitball  -sfido peraltro qualunque lettore ad allenarsi con profitto, se ci riesce, avendo nelle orecchie l’ovatta sonora di un jangle-pop vaporoso e sognante-, l’incredibile Feels So High ha impiegato un minuto scarso nel ricatapultarmi dentro la tempesta che i Verve scatenarono in paradiso (perduto? artificiale? forse entrambi…) nel 1993. Brividi.

Non si direbbe ma sono in effetti passati trent’anni esatti dal folgorante esordio A Storm in Heaven, che fa il paio con il non meno clamoroso Gravity Grave, extended play dato alle stampe un anno prima, nel periodo di massimo fulgore della band di Wigan (non ce ne vogliano gli irriducibili di Urban Hymns…).
Ultimamente la testa di chi scrive è tornata spesso a fantasticare intorno a quei giorni gloriosi, non solo grazie all’allure irresistibilmente verviana che permea ampia parte del notevole ritorno dei Beach Fossils ma anche se non soprattutto per la casuale convergenza di più correnti, fra loro apparentemente scorrelate: i recenti lavori di Gaz Coombes e Noel Gallagher (cui va sommato l’imminente quanto imprevisto come back dei Blur), un film meraviglioso come Aftersun, inaspettate canzoni, con annesso documentario, dedicate a Roberto Baggio, eventi a loro modo epocali, come la morte di chi sappiamo.

Chi vi scrive è stato del resto, nell’ordine, prima un bambino felice, poi un adolescente solitario, infine uno studente via via sempre più disilluso, negli anni in cui chi sappiamo riplasmava l’Italia a sua predatoria immagine e somiglianza, progressivamente impadronendosene per poi abbandonarla agli spasimi di un’inesorabile, fatale, malattia. Tuttavia non è di questo che vorrei parlare (fin troppe ne abbiamo già sentite, mi si consenta…), quanto piuttosto del disco dei Beach Fossils.

A quanto leggo, Dustin Payseur, leader della band americana, è un classe 1986, dunque pressappoco mio coetaneo. Dubito che Payseur a sette-otto anni ascoltasse Verve, Ride o Slowdive. Il suo magistrale, a tratti impressionante, lo-fi dream pop è essenzialmente un sublime esercizio di memoria fantastica, se mi si passa l’espressione, la ricostruzione immaginaria di un passato in qualche modo verosimile sebbene vissuto quasi esclusivamente nella sua idealizzazione poetica, in forma di visione o come sogno. Anzi, per meglio dire, visto anche il contesto sonoro d’appartenenza, come sogno di un sogno di qualcun altro. Un dream pop al cubo, per così dire.

Si tratta di un incantesimo che aveva già saputo avvincerci non troppi anni fa, grazie alle imprese di band a vario titolo imparentate con i Beach Fossils come The Pains of Being Pure at Heart, the Drums, Violens (i miei preferiti), DIIV, Wild Nothing, Craft Spells, Real Estate, volendo anche Beach House. I newyorchesi lo rinnovano al suono di canzoni magnificamente riuscite, dotate di personalità, armonia, gusto, strabiliante sostanza emotiva.
Don’t Fade Away, per dirne una, è una canzone di una bellezza formidabile, improbabilmente a mezza via fra (Don’t Fear) the Reaper dei Blue Oyster Cult (siamo pur sempre in America) e Timeless Melody dei La’s. Non le sono inferiori (Just Like The) The Setting Sun, Seconds, Anything Is Anything, la già citata Feels So High, che potrebbero tranquillamente figurare fra le eteree pepite raccolte nella recente (e splendida, ça va sans dire) antologia Cherry Stars Collide della Cherry Red, fra Breathless, Autums e Levitation. Forse è presto per dirlo eppure Bunny potrebbe rivelarsi uno dei migliori dischi del 2023. In attesa di scoprirlo, le vostre orecchie faranno parecchia fatica a staccarsene.

3 pensieri su “Beach Fossils – Bunny

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