Francesco Giordani per TRISTE©
Ricordo con estrema esattezza la prima volta che vidi i Drums esibirsi sopra le assi di un palcoscenico. Lo ricordo senza fatica anche perché ero a Barcellona, al mio primo Primavera Sound, in dolcissima compagnia.
Il luminoso ep Summertime! (col senno di poi probabile vertice creativo della band, a tutt’oggi insuperato) era già uscito da più di sei mesi, mentre l’album omonimo d’esordio sarebbe arrivato nelle mie mani giusto nel luglio di quello stesso anno, il 2010, a raccogliere gli onori di un trionfo annunciato.
Ma non scordo (né potrò mai scordare) il concerto barcellonese dei Drums soprattutto perché quello che vidi allora andò ben oltre le mie (pur altissime) speranze: i quattro newyorchesi operarono davanti ai miei occhi un piccolo miracolo, una cerimonia propiziatoria, a mezza via fra la ginnastica e il sogno, scandita da evoluzioni piroettanti nell’aria, frangette vertiginose, corpi senza peso, e, sopra ogni cosa, canzoni fragilissime e antiche, pulsanti di una vita giovane, scandalosamente pura.
L’indie pop, qualunque cosa fosse, mi si era appena rivelato, nel gesticolare invasato di quei quattro, giovanissimi, sciamani.
Da allora ho rinnovato ad ogni nuovo album la mia incrollabile fedeltà al piccolo mito di questa singolarissima band: li rividi in Portogallo, Nos Primavera Sound, nell’ultima data del tour mondiale a supporto del secondo disco Portamento, visibilmente sfibrati, estenuati, sviliti da un suono grossolano, totalmente privo di grazia e leggiadria, ad un passo dall’esaurimento nervoso.
Non per niente di quella band sopravvissero poi solamente il cantante/autore Jonathan Pierce e il fedelissimo chitarrista/tastierista Jacob Graham. Che ritrovai, affiancati da strumentisti in parte nuovi di zecca, a Roma, finalmente a casa mia, per presentare il non troppo ispirato Encyclopedia ad una platea insolitamente nutrita ed osannante.
Fu però quella un’esibizione tanto impeccabile quanto affettata nelle sue pose studiatamente plastiche, che mi lasciò l’impressione di burattini incipriati alla prese con una recita sin troppo calcolata in ogni colpo di scena. Non era più la band per cui avevo perso testa e cuore in un batter di ciglio, durante quel sabato pomeriggio di un maggio gloriosamente spagnolo.
Il processo di autoriduzione (autocancellazione?) della band non si è fermato e, in seguito alla dipartita di Jacob Graham, i Drums di questo ultimo e quarto Abysmal Thoghts risultano di fatto un progetto accreditabile ormai al solo Pierce. Non so dunque se considerare questo disco come il testamento dei Drums o già come il primo lavoro da solista di Jonathan Pierce (che, va ricordato, già nel 2013 aveva annunciato un disco a suo nome, di cui tuttavia si persero ben presto le tracce).
Fatto sta che, rimasto da solo, Pierce quasi si inselvatichisce, accentuando smodatamente tanto le sue indubitabili virtù quanto, ahimè, i suoi imperdonabili difetti: resta intatta un’abilità fuori dal comune nel disegnare a mano liberissima melodie e ritornelli di una levità e perfezione quasi indisponenti.
I’ll Fight For Your Life, Head of The Horse, If All We Share (Means Nothing) (in odore di Blueboy) e Heart Basel sono piccole schegge di romanticismo struggente che suscitano in me la stessa immacolata emozione di un distico di Sandro Penna, tanto per dire. Eppure si ritrova anche, al fondo di questo disco, una monotonia sempre più ossessiva nei modi e nei temi, che tende a stemperare l’ispirazione del nostro in una stucchevolezza quasi irreale e come troppo “pittorica”, per così dire (le cantilene davvero opache di Mirror, Blood Under My Belt, Are U Fucked e Shoot The Sun Down…).
Il disco, comunque, nel suo complesso si rivela gradevole, al netto di una copertina in tutta franchezza a dir poco ributtante. E, pur restando fedele ad un pedigree di dichiarati riferimenti che nel tempo non sono poi molto cambiati (gli amatissimi gruppi di etichette come Sarah, Postcard e Creation, più svariate tonnellate di citazioni di Smiths, New Order, Phil Spector e Cure), questo Abysmal Thoughts riesce talvolta anche a sorprendere.
Soprattutto, aggiungo, quando lascia sfogare una vena a tratti nuova per curiosi inserti strumentali: piacciono ad esempio i fiati quasi jazz di Your Tenderness e i synth giocosi di Rich Kids, che non sono però ancora le canzoni memorabili che pure da un Pierce in piena forma ci aspetteremmo.
È ugualmente evidente, almeno per chi scrive, che questo Abysmal Thoughts, col suo ipertrofico affastellarsi di solitarie elucubrazioni sentimentalistiche, vada a chiudere idealmente un ciclo poetico ormai del tutto esaurito. Chiusura che non lascia intravedere, per il momento, quali saranno o potranno essere gli sviluppi futuri.
Se di sviluppi ce ne saranno, beninteso.
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