SOAK @Monk Club – Roma, 17/06/2015

Nella vita bisogna saper cambiare idea. E io non lo faccio abbastanza spesso. Sono testardo, sono pieno di convinzioni e difficilmente le cambio (anche perché spesso ho ragione. Ehm).

Ma come dice il mio amico Luca, crescere è anche saper ammettere di avere sbagliato. E modificare i propri giudizi con onestà.

Io devo imparare ancora molto. Ma ecco, un piccolo passo avanti lo sto per fare. E devo ringraziare una giovane ragazza irlandese e la sua voce.

SOAK_MonkSì, perchè sinceramente il mio primo impatto con la musica di Bridie Monds-Watson, la cantautrice ai più nota come SOAK, non è stato dei migliori. Fermi tutti. Non è che non avessi apprezzato il suo bel debut, Before We Forgot How To Dream. Semplicemente c’erano un po’ di cose che non mi convincevano.

Da un lato la voce (cosa su cui mi sentirete dire solo parlare bene tra breve), dall’altro (punto principale) l’eccessiva “produzione” di alcuni pezzi nella loro versione in studio. Tutto questo non sminuiva il giusto interesse per questa giovanissima musicista, ma lasciava in me una sensazione del tipo “sì, ok, però…”

Tutti questi dubbi sono svaniti Mercoledì sera, mentre con una birra in mano sedevo su una delle sedie a sdraio che guardano il palco allestito nel giardino dell’accogliente Monk Club (a cui facciamo i complimenti per la location e per l’organizzazione). Ai lati avevo sia Francesco Amoroso che Marica Notte (nomi che dovreste conoscere…): il primo si lasciava andare ad inaspettate urla al termine dei pezzi preferiti, l’altra era assorta nel contemplare la bravura di Bridie.

E anche io, devo ammetterlo, sono rimasto colpito. Colpito per come la voce di SOAK, pulita da ogni suono se non l’accompagnamento della chitarra, vibri delicata e incisiva e arrivi dritta al cuore. Colpito per come quei pezzi che non mi convincevano su disco, puliti da ogni fronzolo si rivelino delle vere gemme.

A volte si può rimanere delusi da un live in cui l’artista presenta i pezzi che da tempo abbiamo nelle orecchie in una versione completamente differente. Qui, per me, è stato il contrario. Affascinato da pezzi come Blud, B a noBody o Wait. Il tutto arricchito dalla cover di Bonnie Raitt (via Bon Iver?) di I Can’t Make You Love Me.

Quando la cantante risale sul palco per concludere il live con Sea Creatures, la sua timidezza è sommersa dagli applausi e dal calore del pubblico romano, che evidentemente aveva colto a fondo, prima di me, la sua bravura.

Io non sono ancora cresciuto del tutto. Ma ho imparato a cambiare idea sulle cose. Qualche volta.

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