La vita è fatta anche di occasioni mancate, di casi strani, di destino avverso.
Personalmente, una serie di concause non mi hanno mai portato ad assistere ad un concerto dei Timber Timbre prima di sabato scorso, quando i cinque canadesi sono calati, all’interno di un corposo tour italiano, presso il Monk di Roma, ormai un po’ l’epicentro di tutto quello che si muove in ambito “alternative” nella Capitale.
Dopo le aperture del nostrano bluesman Joseph Martone e del jazzista in solo Chris Cundy (che si unirà alla band per il live principale), i Timber Timbre prendono possesso del palco.
Il live, che si apre con la title track dell’ultimo disco (Sincerely, Future Pollution), fa immergere i tanti presenti in un mare di linee di basso profonde e ritmate, chitarre taglienti quanto basta, batteria a tratti inflessibile e krauta, a tratti soave, tastiere a riempire il tutto e incursioni di sax mai invasive.
Sono spiccate tra le altre le atmosfere languide di Hot Dreams, dal disco precedente, il quasi-Nick Cave trasognato di Until The Night Is Over, la jazzy Do I Have Power, il blues contemporaneo della finale Trouble Comes Knocking.
Un bel viaggio interrotto solo dal fastidioso feedback al microfono che ha spaventato persino Taylor Kirk prima di Black Water, in apertura del bis.
I Timber Timbre riescono a combinare una scrittura eccellente a sonorità complesse e stratificate, quasi una sorta di prog-blues rifatto da dei Birthday Party con meno eroina in corpo.
Anche più intensi che su disco.