Ariel Pink – Dedicated to Bobby Jameson

Francesco Giordani per TRISTE©

  Dedicato a Claudio Giordani (mio padre)

Mio padre mi regalò un impianto stereo, contro la mia volontà, quando avevo undici anni.

All’epoca la musica non accendeva granché le mie fantasie, avrei preferito un paio di Cult, eppure mio padre, in virtù di un passato di rocker pre-punk mai rinnegato (smise infatti di comprare novità discografiche, collezione di vinili alla mano, attorno al 1978), reputò quel gesto pedagogicamente necessario.

Probabilmente, anzi certamente, quando lo stereo andò ad occupare il posto che tutt’oggi gli spetta in salotto, non lo ringraziai. Del resto come avrei potuto immaginare che la mia esistenza era appena cambiata per sempre, in maniera del tutto irreversibile?

Dico tutto questo perché i lavori di Ariel Pink, sin da quando nel 2009/2010 cominciai, con crescente sorpresa, a scoprirli e ad ascoltarli, mi hanno sempre fatto rivenire in mente certi dischi ancor oggi molto amati da mio padre.

Opere, a tratti anche mirabolanti, come Another Live della Todd Rundgren’s Utopia, One Size Fits All di Frank Zappa, ma anche gli America, i Grand Funk Railroad…

Sulla musica di Ariel Pink si è scritto e si continua a scrivere molto, soprattutto dopo che Simon Reynolds, in vari interventi critici, compreso il celebre instant classic Retromania, ha individuato nella produzione del compositore californiano una delle espressioni a suo modo più emblematiche, oltre che sintomatiche, dei nostri tempi di riciclo culturale conclamato e permanente.

Una musica, quella di Ariel Pink, che si è sempre spinta con ammirevole sfacciataggine fino ai limiti estremi di un’inconsistenza ineffabilmente spettrale, fantasmatica, e che, parimenti, non ha mai smarrito il segreto di una grazia e di una cantabilità a dir poco prodigiose.

A tre anni dal bellissimo Pom Pom, il nuovo (ed undicesimo) album del nostro imbandisce l’ennesimo, avventuroso, zapping fra le frequenze alterate di un palinsesto tutto mentale, che vive di detournement innescati ad arte e fantasticherie meta-radiofoniche.

Ricordo e falsificazione manieristica dello stesso si confondono con malcelato, spesso stralunato, umorismo in numeri di altissima fumisteria: il synth-pop della splendida Feels Like Heaven (che ovviamente non è una cover dei Fiction Factory), i Buggles virati nazi di Time To Live, i Cure di Santa’s in The Closet, fino al quasi OI di Revenge of the Iceman. O, meglio ancora, fino a Kitchen Witch, che è la perfetta, definitiva, pop-hit del 2017 che non troverete né nel nuovo disco di Taylor Swift né tanto meno in quello di Miley Cyrus, figuriamoci.

Ho incrociato Ariel Pink due volte, prima e dopo un paio di concerti con gli Haunted Graffiti (epocale il primo, assai svogliato e approssimativo il secondo). Mi colpì il distacco impassibile del personaggio, l’aria stancamente accidiosa, un po’ imbalsamata, fra il dada e lo zen, il sorriso da sfinge impenetrabile.

Un tipo simile a Captain Beefheart o a quel Bobby Jameson (oscuro e sfortunato autore anni 60, risorto a nuovo culto per una ristretta cerchia di estimatori a metà decennio scorso), le cui rocambolesche vicissitudini fra vita e morte hanno ispirato canzoni (e titolo) di quest’ultimo disco.

Un outsider, uno sciamano, un iniziato, un veggente, o forse solo un amabile cialtrone, perennemente sprofondato in una qualche oscurissima (e, c’è da scommetterci, oziosa) escogitazione.

Credo che mio padre lo troverebbe simpatico. Domani gliene parlo.

2 pensieri su “Ariel Pink – Dedicated to Bobby Jameson

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