Anna Calvi – Hunter

Francesco Giordani per TRISTE©

È una piacevole, piacevolissima anzi, sorpresa ritrovarsi oggi di fronte ad un’Anna Calvi così profondamente cambiata.

Un’evoluzione, quella della Calvi, naturale e tutt’altro che forzata, che un disco felicemente riuscito come Hunter, sua terza fatica in studio, racconta nel migliore dei modi.

Impressione ribadita a piè se possibile ancor più sospinto anche dalla “data zero” del tour mondiale a supporto del nuovo album, consumatasi, con gioiosa (e ci auguriamo non isolata) intuizione, nel bellissimo chiostro michelangiolesco delle sempre impressionanti Terme di Diocleziano, lo scorso 14 Settembre, ad inaugurazione della rassegna multidisciplinare Ō.

Apparentemente fredda, glaciale, statua fra le statue, forse un filo anche spaventata, Anna Calvi non ha impiegato molti minuti a riversare sul pubblico il “canto nuovo” del suo cuore in realtà così incandescente da scottarsi solo a sentirlo battere e pulsare.

Voce limpida, corpo magrissimo e minuto, avvolto in una spagnolesca blusa rosso fuoco, stivaletti bianchi, mascella tesa e ciuffo corvino: il nuovo archetipo drammaturgico scelto dalla Londinese è senza dubbio l’Amazzone, la figura mitica che più fedelmente la descrive è Giovanna D’Arco, mistica “pazza” e poetessa guerriera.

Il demone del desiderio, che da sempre abita le visioni liriche della Calvi, danza sull’apertura strumentale di Rider To The Sea e da lì si propaga attraverso le nuove splendide composizioni As A Man, Don’t Be The Girl Out OF My Boy, Hunter, Wish, Indies or Paradise, di poco o per nulla inferiori ai “classici” Suzanne and I ed I’ll Be Your Man, a sostanziare un più ampio discorso potentemente rock. A tratti forse anche “hard” rock.

Lo conferma una fluviale reinterpretazione di Ghost Rider dei Suicide che trasfigura il delirante doo-wop metropolitano dell’originale in un batticuore paranoide, in un mistero della Passione oscenamente seducente. La Fender Telecaster, stretta nelle mani della Calvi, crepita, singhiozza e fiammeggia come una spada elettrica che prolunga il lampo dei suoi occhi vitrei fino alle ultime file, per trapassarle con un taglio netto, orizzontale. Mortale ferita che la conclusiva Love Won’t Be Leaving, nell’encore, cauterizza e guarisce a dovere.

Il nuovo album esibisce una forma plastica ed essenziale, perfettamente librata fra classicismo decadente -non per niente ne è produttore Nick Launay- e pop aereo, cantabile. I densi vapori operistici del capolavoro Swimming Pool, scanditi da quell’ipnotico e subito indimenticabile mareggiare delle shadows of light/waves of desire, ne rappresentano probabilmente l’emblema supremo. Al pari di Chain, purtroppo non eseguita.

Luoghi elettivi di una nuova verità sessuale, esistenziale ed amorosa, conquistata a caro prezzo, e che pure, finalmente, prende corpo, voce e melodia. La formazione “hendrixiana” a tre, con Mally Harz a tastiere e percussioni e Alex Thomas alla batteria, non fa rimpiangere il più ricco schieramento delle esecuzioni in studio (si ricordano, fra le altre, le presenze di Adrian Utley dei Portishead e Martyn Casey dei Bad Seeds).

Il nuovo repertorio ne esce comunque esaltato, per quanto forse, in alcuni frangenti, ancora bisognoso di un’”usura” che solo il tempo saprà dargli.

Per il momento resta con noi un album, Hunter, che darà la caccia ai nostri sogni ancora per molto.

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