Dalla mia unica (e non molto recente) lezione di Yoga mi porto dietro questa assurda convinzione che io in fondo, di meditazione, qualcosa ne so.
La sera, quando le luci sono spente e il gatto non occupa a sproposito il fondo del letto, tolgo il cuscino da sotto la testa, stendo la schiena, apro leggermente le gambe e le braccia girando i palmi verso l’alto, e respiro. Di pancia, lentamente e profondamente.
Partendo dal basso ventre fino al petto, e poi al contrario, espiro dal petto fino al basso ventre. Il movimento ripetuto e oscillante mi rilassa. Il piacevole sforzo del pavimento pelvico mi proietta verso distese infinite di dolci colline lussureggianti. Pieni e vuoti, alti e bassi che scivolano morbidi davanti i miei occhi chiusi.
Da questa posizione privilegiata posso credere di essere calma. E posso credere che anche Hand Habits lo sia.
Meg Duffy, la fortunata chitarrista di Kevin Morby e collaboratrice di William Tyler, mette in scena con Placeholder (uscito il 1 Marzo per Saddle Creek Records) dodici ombre country-folk, allestendo la scenografia di ambientazioni sonore dolci e raffinate. Dodici brani tanto delicati e placidi ritmicamente, quando cupi e profondi liricamente.
Sotto i colpi cadenzati della batteria e il pizzico radioso della chitarra, può ipnotizzarti e cullarti, offrendo una calma e sognante melodia anche alle riflessioni più scure.
Mentre il corpo si distende sulla linea del presente, la mente è libera di accettare le sue riflessioni più rabbiose, di riproiettare come sagome all’orizzonte gli abbandoni e le assenze segnanti (placeholder, can’t calm down).
L’intreccio melodico e narrativo, delicato e potente, può sembrare un inganno ma vale la pena provare ad adottare un punto di vista differente, forse scomodo all’apparenza, ma funzionale. In bilico tra moderazione e rivendicazione esiste un punto di equilibrio dove si possono tenere insieme tutte le sfumature che corrono lunga la linea continua delle emozioni. In quel punto, Jessica non è più un nome ma diventa un suono, che ripetuto teneramente riempie un vuoto con il perdono.
La voce profonda di Duffy mentre condivide le sue angosce è sostenuta da un band capace di registrare melodie eleganti, raffinate ma mai stucchevoli o noiose.
Non si fa attendere un po’ di possibile (“sennò soffoco” cit.) e sul finale si trovano alcuni dei brani più leggeri e ottimisti come what’s the use, dove un’acuta chitarra si mescola al synth, e una voce, più sottile del solito, continua a chiedere “What’s the use if you’re not trying to forgive?”.
Siamo sempre in quel punto, dove la frustrazione incontra l’accettazione, dove una dondolante e dolce ballata pop finisce in un languido assolo di sax (the book on how to change part II).
Dove termina questo breve e intenso viaggio tra episodi, spesso densi di rammarico e rabbia, che si evolvono in un tempo diverso da quello cronologico di un prima e un dopo. Rielaborazioni che attraversano mille sfumature fino ad arrivare a una specie di consapevole resa all’evidenza.
Un misto tra un pugno allo stomaco e il nirvana.
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