Aldous Harding – Designer

ALDOUS HARDING - DESIGNERID_12 Sleeve 5mm MPO Spine

Francesco Amoroso per TRISTE©

Sarebbe bello poter vivere una vita nella quale ci fosse concesso di accedere alle sensazioni limbiche di timore, angoscia, senso d’ignoto, vuoto, viltà, invidia, disprezzo, rancore e attrazione per il lato sbagliato delle cose, senza però rischiare davvero, senza essere costretti ad abbracciare l’oscurità, senza essere travolti e sedotti dai cattivi sentimenti.

Insomma vivere una vita riparata e tranquilla, senza, però, rinunciare all’adrenalina e all’eccitazione che arrivano solo dalle situazioni incognite e pericolose, dal fascino del male.

Mi rendo conto che forse è chiedere troppo, eppure un’esistenza fatta di sola sicurezza e di situazioni confortevoli risulterebbe fatale per chiunque.

Il brutto, il deforme, il respingente sono, in qualche modo, la ragion d’essere della bellezza. Il sollievo presuppone la paura. La quiete arriva, per dirlo con una frase fatta, sempre dopo la tempesta. È la vecchia storia del diavolo necessario all’esistenza di Dio, lo so. È banale e anche piuttosto trita, ma verissima.

Ho la sensazione che Aldous Harding questi argomenti li conosca perfettamente e che abbia deciso di farci i conti quotidianamente: qualche anno fa raccontava, ai pochi interessati alla sua musica, che l’ispirazione le arrivava quasi esclusivamente dalla paura e che questa condizione rischiava di prosciugarla.

Al momento del suo secondo album, tuttavia, era parso (e lei lo confermava in ogni intervista) che l’oscurità non avesse affatto preso il sopravvento ma che l’enigmatica e schiva artista neozelandese fosse riuscita a trovare l’ispirazione in qualche diverso e più recondito anfratto del suo animo.

La paura non c’era più e pure la sua espressione da ragazzina di campagna arrabbiata era svanita, facendo posto a un atteggiamento (e a sonorità e testi) più imperscrutabile e obliquo. Sembrava quasi che, più acquistasse fama e attenzione, più Hannah/Aldous, diventasse forte e sicura di sé, preferendo comunque nascondersi definitivamente dietro un personaggio fittizio e anodino.

Anche le sue performance dal vivo (così come i suoi video) sono diventate via via più audaci e coinvolgenti, ma sempre più eccentriche e stravaganti, tanto che alcuni degli sparuti fan della prima ora si sono sentiti spiazzati, un po’ traditi.

Designer (titolo che, per sua stessa ammissione, voleva essere neutro, elegante e molto vago, ma che riesce ad essere solo molto vago) prosegue in maniera più che coerente nella parabola artistica di Aldous (non ha quasi più senso chiamarla familiarmente Hannah, visto che oramai il suo doppelgänger ha definitivamente preso il sopravvento), pieno come è di stranezze, ambivalenze, testi impenetrabili e teatralità.

Le canzoni – scritte in tour e incise con nuovi compagni di viaggio Huw Evans (H. Hawkline), Stephen Black (Sweet Baboo), Gwion Llewelyn e Clare Mactaggart – suonano  eleganti e morbide e, almeno a un primo approccio, più luminose. Le sonorità sono vellutate e calde, caratterizzate dalla semplicità del pianoforte, dalla chitarra acustica (con corde in nylon) suonata con il solito aggraziato fingerpicking, da sottili arrangiamenti per legni e ottoni, da ritmiche discrete ma persistenti.

L’album, che con le sue vaghe sfumature psichedeliche a tratti richiama il cantautorato californiano della fine degli anni sessanta, risulta originalissimo e personale soprattutto grazie alla mutevole vocalità di Aldous che, pur avendo attenuato la propria melodrammaticità, è ancora solita cantare con un’enunciazione unica e inconfondibile e passare incurante e repentina da una tonalità profonda e rauca a un cantato acuto ed elevatissimo.

E, se le melodie sono dolcemente affascinanti, quasi carezzevoli a momenti, la scrittura della Harding continua a risultare inquietante, oscura, eccentrica e profondamente autentica.

È una visione del mondo e dei sentimenti cupa e tenebrosa quella che traspare dai frammenti più accessibili dei suoi testi: “There’s a definite vibe/ You can’t be pure and in love” ci dice in Fixture Picture, “The wave of love is a transient hunt”, ribadisce in The Barrel, “Heaven is empty, nobody’s there/ I brought my camera, it stayed in its bag/ People ask me all the time what I want/ The answer is one/ Heaven is empty”, spiega sconsolata in Heaven is Empty e, anche uno slancio iniziale positivo “I can do anything/ No one is stopping me/ I can be anything”, non può che concludersi con un turbamento: “But I’ve got the weight of the planets/ I’ve got the weight of the planets, I’m lost”.

Eppure è proprio questa duplicità che caratterizza le sue canzoni – accattivanti e delicate, ma disorientanti e indecifrabili – a dare vita e respiro a un’opera di disarmante, intima e raffinata bellezza, nella quale se la presenza dell’angoscia e dell’ignoto è concreta e tangibile, è essa stessa a giustificare una luminosità tanto abbagliante.

Il diavolo e l’altissimo lavorano sempre fianco a fianco.

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