Francesco Amoroso per TRISTE©
Se tutti quelli che oggi dicono di aver da sempre ammirato il talento di Michael Head avessero, all’epoca, acquistato gli album che il songwriter di Liverpool ha sfornato con The Pale Fountains, Shack e The Strands (ma anche solo, più recentemente, il precedente lavoro con The Red Elastic Band del 2017), probabilmente il buon Michael, uno che nella sua vita ne ha viste di tutti i colori e ha attraversato tempeste che sarebbero riuscite a spezzare chiunque, adesso si starebbe godendo i frutti del suo lavoro in una qualche isola tropicale (magari di proprietà) e guarderebbe dall’alto in basso quasi tutte le popstar di cartone che, invece, tra gli anni ottanta e novanta, i soldi veri li hanno fatti.
E, invece, Mick -come viene affettuosamente chiamato- e la sua musica sono stati sempre appannaggio di pochi fortunati e, anche se adesso va di moda affermare di aver sempre amato le sue canzoni di pop psichedelico malinconiche e vitali, per anni -ad eccezione, forse, di un breve periodo con gli Shack- la sua notorietà era relegata tra pochi appassionati e maniaci del pop indipendente inglese.
Non fraintendetemi: non è che non sia contento del fatto che, ormai, ovunque ti giri, scopri dei fan di lunga data di Michael Head, persone che posseggono la discografia dei Pale Fountains, sin da primo singolo, Thank You, del 1982. E non è nemmeno che non ci creda.
Mi chiedo soltanto dove erano tutte queste persone quando Michael, nonostante il suo mostruoso talento, faticava a sbarcare il lunario e combatteva con i suoi demoni.
Ogni volta che arriva un suo nuovo lavoro, c’è grande attesa e si scrivono grandi panegirici su Michael Head e la sua musica, sulla sua figura di culto venerata da oltre quaranta anni, sulla sua carriera fatta e disfatta, ma, ogni volta, poi, Michael deve ricominciare da capo.
La mia passione per la sua musica, che non risale al 1982 ma a qualche anno dopo (ed è dovuta a un ragazzo che poi si è fatto prete, ma questa l’ho già raccontata), è sempre stata autentica e sincera e ho seguito la sua parabola artistica (che non vede, per ora, alcuna fase calante) con un amore infinito, quello che si riserva a coloro che senti più fragili, più veri e sensibili e, soprattutto, con doti artistiche del tutto sopra la norma.
Forse è per questo motivo (perché Michael Head l’ho sempre sentito un po’ mio, un po’ uno di quei preziosissimi segreti che si vogliono custodire gelosamente, magari solo all’interno di una cerchia ristrettissima e fidata di amici) che quando è uscito, qualche settimana fa, avevo un po’ di paura ad ascoltare Dear Scott, il suo secondo album con The Red Elastic Band, arrivato a distanza di cinque anni dal suo predecessore Adiós Señor Pussycat.
Certo i tre brani già disponibili, Kismet, con quel suo intro di chitarra così smithsiano, Broken Beauty, dal ritornello fulminante (“People try to put you down – they won’t win”) e American Kid con il mio adorato suono delle trombe ad accompagnare una languida ballata, mi avevano subito convinto: anche questa volta, e non avevo dubbio, Mick non mi avrebbe tradito. Eppure rimandavo l’ascolto dell’album.
Mi dicevo che lo avrei fatto con calma, appena avessi avuto un po’ di tempo da dedicargli, la giusta predisposizione d’animo. Ma quel momento non arrivava e le recensioni entusiastiche che si susseguivano, che arrivano a considerarlo il miglior album della carriera di Head (“Migliore di The Magical World Of The Strands?” mi chiedevo incredulo) certo non mi aiutavano.
E se non mi fosse piaciuto come gli altri suoi lavori? E se non avessi ritrovato nei suoi solchi quella impalpabile e inesplicabile magia che mi aveva sempre avvinto e ammaliato? Quando ti aspetti troppo da qualcosa, è quasi inevitabile che rimarrai deluso.
Alla fine ho preso il coraggio a due mani (…) e ho ascoltato Dear Scott dall’inizio alla fine. E, appena è finita l’ultima nota di Shirl’s Ghost, il dodicesimo brano in scaletta, l’ho riascoltato. E, poi, l’ho riascoltato ancora. Ce l’ho in cuffia anche adesso. E i miei piani futuri non prevedono che smetterò di ascoltarlo molto presto.
E’ vero che ogni album di Mick Head è un diamante -più o meno grezzo-, ma Dear Scott –il titolo arriva da una nota che F. Scott Fitzgerald, finalmente sobrio ma non più di moda, aveva indirizzato a se stesso– ha una abbacinante lucentezza dorata, un benevolo incanto, un fascino particolarmente profondo.
Sarà che i brani di Head sono, ancora più del solito, impreziosisti con archi e ottoni disposti con maestria e leggiadria dal produttore Bill Ryder-Jones, un tempo in The Coral, sarà che l’affiatamento con The Red Elastic Band è ormai perfetto, sarà che Mick maneggia il proprio songwriting con straordinaria nonchalance -tanto che canzoni come Kismet, Broken Beauty o The Ten suonano talmente sue da apparire, ma solo al primo ascolto, quasi scolastiche-, sarà, infine che mai come in questo album l’Inghilterra di Liverpool si sposa alla perfezione con la West Coast degli Stati Uniti -basta ascoltare la magnifica Fluke, che racconta di un tour in autobus delle case delle stelle a Los Angeles con partecipata ironia-, sarà quel che sarà (come diceva il brano vincitore a Sanremo del 1983), Dear Scott dovrebbe essere, se il mondo della musica “leggera” fosse un mondo giusto, l’album della consacrazione per Michael William Head, musicista di Liverpool classe 1961.
Non conosco tanti artisti che sarebbero in grado di scrivere un brano come Fluke, una traccia straordinaria, una sorta di malinconico rock orchestrale dal suono vintage, o American Kid, con le sue atmosfere a là Bacharach, che racconta di un amico d’infanzia cresciuto nel Merseyside che ama travestirsi e sogna la cultura americana (“You were born in a highrise in Kirby/Go to work as Eddie, go to bed as Kathy Kirby”). Così come non è da tutti riuscire a scrivere un album pieno di cambi di stile e direzione musicale, eppure coerente e magnificamente omogeneo (basta ascoltare Gino e Rico, che si muove tra jazz e orchestrazioni di fiati e archi e, comunque, suona “Mick Head” dall’inizio alla fine). Ma, anche quando, come si diceva, l’accompagnamento sonoro è meno imprevedibile, è la sapienza con la quale Head disegna il suo mondo, la poesia con la quale ci fa assaporare i ricordi, a essere davvero straordinaria: un esempio lampante è The Ten, una nostalgica madeleine, piena di impeto giovanile e di spensieratezza che racconta la frequentazione del giovane Michael al mercato di Kensington, dove lavorava suo padre, insieme al fratello minore John (compagno di viaggio in The Pale Fountains, Shack e The Strands) e al fastidioso amico Badger (“Badger threw a peach and it all went pear-shaped“).
Se la prima parte dell’album è caratterizzata da sonorità più movimentate e pop, nella seconda a prevalere è una nostalgia sognante, con brani come The Grass, un folk orchestrale accorato e Pretty Child, pensieroso e assorto pop chitarristico nella vena degli Shack più pacati, che racconta la strana e straniante storia di una sex-worker e di sua figlia.
Shirl’s Ghost, un breve strumentale per pianoforte e archi, chiude in maniera ancora spiazzante un lavoro meraviglioso che contiene tutti i tratti distintivi dei più grandi momenti di Head: l’amore per i Love e i Byrds, le melodie inarrivabili, gli struggenti passaggi di tromba, una musica piena di nostalgia, di impeto e di coraggio e testi che riescono a evocano mondi interi.
“I once thought that there were no second acts in American lives“, scriveva Francis Scott Fitzgerald che credeva, invece, che le vite americane avessero effettivamente dei secondi atti, seconde opportunità, proprio come è accaduto a Michael Head, pur arrivando lui da Liverpool.
Michael, anzi, di seconde opportunità ne ha avute almeno tre o quattro e le ha sfruttate (quasi) tutte al meglio. Dear Scott rappresenta, invece, solo un’altra opportunità per coloro che non ne hanno ancora scoperto i talento e la classe sopraffina.
Mai dubitare di Michael Head.
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