Hotel Lux – Hands Across The Creek

Francesco Giordani per TRISTE©

Parlando di Gaz Coombes mi ero un po’ (un po’ tanto…) fatto prendere la mano da fanciullesche nostalgie anni Novanta.
A distanza di qualche settimana, mentre curvo sulla tastiera m’ingegno a mettere in fila le parole della recensione triste di Hands across the creek, ovvero il brillante esordio dei sud londinesi (d’adozione) Hotel Lux, il pensiero corre verso altri anni; gli immediatamente successivi, eppure così diversi, anni Duemila.

Ecco, fosse uscito fra il 2005 e il 2008, questo Hands across the creek sarebbe facilmente assurto ad “album of the week” del New Muscial Express e avrebbe di conseguenza avuto più di una chance di far ballare eccitati manipoli di studentesse e studenti prossimi alla laurea breve in qualche disciplina umanistica, all’interno di piccoli club dislocati pressappoco fra il primo e l’ultimo meridiano terrestre. Oggi questo disco deve invece accontentarsi di venire casualmente scoperto su Spotify da qualche occasionale ascoltatore ingiustificatamente interessato, magari punto sulla giugulare da un’amara nostalgia dei propri anni post-adolescenziali, come il sottoscritto.

Sebbene non possa escludere a priori un più o meno imminente revival degli anni Duemila ad opera di qualche solerte indie-boomer (del resto i prossimi tour italiani di Franz Ferdinand, Arctic Monkeys e Libertines paiono già apparecchiare la strada…), credo che in definitiva esso non potrà recare apprezzabili benefici agli Hotel Lux. I quali ad ogni modo, e in scia ad una tradizione tutta britannica di art-rock sempre funambolicamente sospeso fra satira e militanza, si concentrano nel confezionare al meglio i dieci episodi del loro esordio discografico. Ne salta fuori un repertorio abbastanza eclettico in cui può capitare di tutto un po’, dalla miccetta piacevolmente popedelica (Points Of View, Strut) al punk scassone (National Team) e un po’ fumato (Eastbound and Down), fino alla ballata ubriaca a lume di lampione (Eazy Being Lazy).

Sentirete rumoreggiare sullo sfondo i Fall (I don’t know how to build a wall/But they reckon I can rip off The Fall, confessano d’altra parte i ragazzi), forse più per autosuggestione a dire il vero, ma anche i Television Personalities, certi Blur o a preferenza certi Pulp, per arrivare fino all’altrieri di Fat White Family, Shame, Feet e Yard Act, solo per alzare la polvere di un altro po’ di nomi ancor freschi nella memoria. Ai quali aggiungo, per tornare al decennio da cui eravamo partiti, quelli da me molto amati di Rakes e Art Brut (sentite Common Sense), proprio a sottolineare un’attitudine d’altri tempi, che negli Hotel Lux riluce a tutta forza e volentieri si accompagna ad un sarcasmo sottilmente meta-canzonettistico, talvolta ad esplicite tinte politiche (I don’t really want the foreman’s job/ Nor be a champagne socialist /I don’t really want the nine five grind/ Nor be a psychotherapist/(…) I could write some words instead/ Don’t use cement, I use lead).

Del resto l’Hotel Lux era un albergo di Mosca, “nel quale nei primi anni dell’Unione Sovietica, soggiornarono a lungo leader emigrati dei partiti comunisti di altri paesi”, si legge su Wikipedia.

Ma, al di là dei riferimenti geopolitici (a tratti quasi profetici, visto il recente andazzo mondiale), di questi ragazzi mi conquista più d’ogni altra cosa, come detto, il loro riuscire così spesso a riportarmi in un’altra epoca del mondo e di me stesso, tanto apparentemente vicina quanto intimamente remota.

Stanotte, per dirne una, dopo ascolti ripetuti del disco, ho sognato di prendere l’autobus che dal liceo, nei primi anni Duemila, mi riportava ogni giorno a casa. Con la differenza non da poco che, una volta salito a bordo, capivo ben presto che quell’autobus non era affatto diretto a casa mia né prevedeva fermate per scendere e cambiare mezzo.
Solo allora mi dicevo: è solo un sogno! e mi svegliavo.
Sarà un caso?

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