Vieri Giuliano Santucci per TRISTE©
L’automazione sta sempre di più invadendo ogni aspetto delle società umane e del vissuto dei singoli individui.
Come “parte in causa” anche io mi trovo a partecipare (ed organizzare, come lo scorso Settembre a Lisbona) eventi che trattano del rapporto tra tecnologia (e più in particolare intelligenza artificiale) e società.
Fortunatamente, però, a parte qualche curioso tentativo, per ora i concerti li fanno ancora le persone in carne ed ossa.
E Venerdì scorso le mura del Monk Club hanno ospitato i Portico Quartet, in tour con il loro ultimo album dal nome, per l’appunto, Art In The Age Of Automation (attualizzazione del titolo del famoso trattato di Walter Benjamin).
La band inglese recupera l’appellativo di “Quartet”, dopo averlo abbandonato nel precedente lavoro (Leaving Fields, di cui vi avevamo parlato qui), e si presenta a Roma per un live completamente strumentale che spazia dall’ultimo album sino ai lavori iniziali che ce li avevano fatti conoscere (tra i quali lo splendido self-titled album del 2012).
Duncan Bellamy, Milo Fitzpatrick, Jack Wylie e Keir Vine sembrano riuscire perfettamente proprio dove le macchine ancora non arrivano, ossia nella sensibilità di bilanciare tecnica (e ne hanno da vendere) e cuore.
La melodia è sempre un filo conduttore nei componimenti del quartetto: una linea di sax, di hang drum (“il grill per il barbecue” – cit. Emanuele Chiti), di tastiera o di basso è sempre pronta a sorreggere il pubblico mentre la band si produce in delicate esplorazioni jazz. Basta ascoltare la meravigliosa Ruins, eseguita nel live come secondo pezzo in scaletta, o Endless (tratta dall’ultimo album) per avere una chiarificazione di questo concetto.
La cosa che davvero impressiona è la capacità di tenere perfettamente agganciati anche ascoltatori non avvezzi ai componimenti puramente strumentali: benchè nella parentesi a nome “Portico” la band abbia fatto grande uso di collaborazioni ai vocals, i pezzi della band sembrano essere perfetti senza alcuna linea vocale. Non semplicemente perchè così sono stati pensati, ma perchè tutta la melodia portata normalmente dalla voce sembra essere comunque presente nei brani.
Il live romano ha confermato ed enfatizzato questa sensazione, risultando coinvolgente dalla prima all’ultima nota, senza mai cadere in quei momenti di “stanca” che a volte possono segnare questo genere di approccio.
Le macchine hanno fatto passi da gigante. Ma per toccare il cuore in questo modo così sublime ci vorrà ancora parecchio tempo.