Damien Jurado @Monk – Roma, 30/10/2018

Vieri Giuliano Santucci per TRISTE©

Vento e pioggia non sono mancate. E non mancheranno.

In questi giorni, ormai come accade da anni, il clima ci ha portato il conto della nostra scarsa attenzione, cambiando rapidamente e trasformando la penisola italica in un paese tropicale. Ci voleva una tregua. Anche per prepararsi al lungo week-end ormai in corso.

E Martedì sera il vento si è pochino placato lasciando spazio alle note e alla voce di Damien Jurado.

Il cantautore di Seattle arriva sul palco del Monk per portare in tour il suo nuovo album, The Horizon Just Laughed. Uscito a Maggio di quest’anno, il disco vede “un ritorno al passato” di Jurado. Dopo una parentesi di alcuni album maggiormente prodotti e, se vogliamo, sperimentali, questo ultimo disco riavvicina il nostro alle sonorità dei primi lavori. Quelle più intime e cantautoriali che tanto ce l’hanno fatto amare.

E sicuramente il set di questo live si addice perfettamente a questo artista che fa del racconto in musica la sua principale cifra stilistica: due sedie e due chitarre, che accompagnano la voce di Damien.

Il concerto si apre con When You Were Few, canzone che non è presente in nessuno degli album di Jurado, ma che ben introduce il mood della serata. Damien ci racconta le sue storie, passando da quelle più recenti (Allocate, Percy Fatith e la bellisima 1973, tra le altre) a i pezzi della sua produzione passata.

In questa serata, che è un po’ un ripercorrere la ormai lunga carriera del cantautore statunitense (il primo disco, Waters Ave. S., è del ’97) vengono recuperati pezzi davvero storici e “toccanti”, come l’ottima Ohio, presente nel secondo lavoro di Jurado.

Anche i pezzi del periodo più recente (AM. AM., Exit 353) vengono “asciugati” e riportati a quella dimensione più intima e folk che meglio si addice a questo artista (almeno a nostro gusto). Jurado è un vero narratore (facile il paragone, con le dovute differenze, con Mark Kozelek) è le sue storie, benchè conosciute, riescono sempre ad affascinare e coinvolgere l’ascoltatore.

Se c’è una cosa che gli statunitensi riescono a fare bene è proprio quella di narrarci le distanze, i viaggi, e le avventure della gente comune. Probabilmente la vastità del territorio e la propensione, storica, allo spostamento hanno portato a questa tradizione “letteraria”. Qualunque sia il vero motivo, quando ci si trova di fronte a questi artisti la mente ed il cuore riescono a viaggiare lontano, trasportandosi verso distese e montagne sconosciute.

La “magia” termina con la fine del concerto, per ritrovarsi in un Martedì sera umido e rigido. Ma questi “intervalli dalla quotidianità” non possono che far bene. 

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