Francesco Amoroso per TRISTE©
Ci chiediamo spesso se sia giusto o meno concedere una seconda possibilità a chi la prima volta ci ha deluso o non ha soddisfatto a pieno le nostre aspettative.
Spesso queste seconde possibilità diventano solo la seconda occasione (e poi la terza e la quarta…) che diamo alle stesse persone per deluderci ancora, per reiterare comportamenti e azioni che ci avevano ferito già la prima volta e così finiamo per diventare intransigenti e per eliminare le persone (per dirla con una metafora tanto abusata oltreoceano) anche solo dopo il primo strike. Probabilmente è un errore grave.
Ed è ancora più grave se parliamo di ambito musicale: siamo talmente sommersi di novità e abbiamo la possibilità di ascoltare ogni giorno decine di artisti e album nuovi che bastano poche canzoni – a volte anche una sola – che non ci convincono al primo ascolto, per passare oltre e l’idea di concedere a un nuovo lavoro o a una nuova band una seconda possibilità spesso non riusciamo neanche a contemplarla.
Se facessi sempre così, vista la messe di nuove uscite che mi ostino ad ascoltare (spesso in maniera inevitabilmente distratta), sono certo che mi perderei tanta musica di valore che, magari, non si disvela dopo un primo distratto ascolto, ma che ha bisogno di tempo e attenzione per potermi davvero colpire.
E’ un discorso vecchio e trito che, tuttavia, acquista nuova forza alla luce dell’uscita, proprio in questi giorni, dell’album d’esordio, omonimo, del duo americano Flowertown.
Sì, perché l’anno scorso i Flowertown li avevo ascoltati – e non avrei potuto farne a meno, visto che mi erano stati segnalati dal maestro Enzo Baruffaldi di Polaroid – ma i loro due e.p., usciti a brevissima distanza l’uno dall’altro per la lodevole Paisley Shirt Records, mi avevano lasciato piuttosto indifferente e, poi, c’erano tante altre cose che premevano, novità che avrei dovuto assolutamente ascoltare. Così il pop rock Lo-Fi e narcolettico di Flowertown e Theresa Street l’avevo superato e dimenticato in fretta.
Per fortuna c’è sempre qualcuno più attento e, così, le composizioni dei Flowertown non sono passate inosservate per tutti e, poco tempo fa la Mount St. Mountain ha deciso di pubblicare i due e.p., giusto ripulendoli un po’, in un unico album (in vinile naturalmente).
Non so se si è trattato della remasterizzazione (che, comunque, non ne ha minimamente alterato le caratteristiche Lo-Fi e le registrazioni sporche e casalinghe) o di una diversa attitudine nell’ascolto, o di chissà quale altro fattore: fatto sta che, stavolta, a distanza di un anno, le dodici canzoni che compongono questo anomalo album d’esordio, mi hanno, in pochissimi ascolti, rapito ed entusiasmato.
Karina Gill e Mike Ramos si sono conosciuti nel marzo del 2020, quando a San Francisco avrebbero dovuto suonare allo stesso concerto, Gill con la sua band Cindy e Ramos con i Tony Jay. Lo spettacolo è stato annullato a causa del Covid, ma i due hanno avuto il tempo di conoscersi e apprezzarsi (e – si narra – anche di scrivere già un brano insieme) mentre attendevano di sapere se sarebbero potuti salire sul palco o meno.
Ci sono volute poche settimane perché il duo pubblicasse le sei canzoni contenute sul primo, omonimo, EP e due mesi per pubblicare Theresa Street.
Sono queste le dodici canzoni che compongono anche Flowertown, quello che potrebbe essere solo l’ennesimo album dell’ennesimo progetto Lo-Fi della scena underground della Bay Area. Eppure questi brani delicati e sciorinati senza fretta, con qualche minima increspatura ritmica (per esempio in Flowertown – che sia questo il primo brano scritto insieme? – o in Pieta), languidi e nervosi allo stesso tempo, sono un piccolo miracolo del fai da te.
RCP, con la sua chitarra elettrica jangle e le ovattate armonie vocali, Natural Light che gioca con l’indie pop ma lo riempie di riverbero, The Rope e Icehouse 1375, che suonano senza tempo e sembrano cantate da Hope Sandoval nel tinello di casa, The Lake, dream pop carezzevole che viaggia a ritroso nei sixties, Theresa ballata sognante e narcolettica che potrebbe essere stata registrata tra sonno e veglia su un vecchio magnetofono, sono tutti bani affascinanti, semplici, diretti e che dimostrano come l’ispirazione abbia colto alla sprovvista e quasi travolto Karina e Mike, impetuosa e senza sforzo.
Le sonorità che scaturiscono dai solchi (ma scaturivano anche dal nastro) di questo esordio tanto favoloso e sorprendente, quanto destinato solo a chi sarà pronto a concedergli attenzione e (almeno) una seconda possibilità, sono trasognate e rallentate, coperte da una patina di sabbia del deserto che il vento ha portato fino alla west coast, caratterizzate da cadenze piacevolmente soporifere e dilatate – seppure i brani siano quasi sempre contenuti sotto i tre minuti.
Per chi ama i riferimenti si potrebbero citare i Galaxie 500, se i Galaxie 500 non fossero passati per le mani sapienti di Kramer, o i Mazzy Star appena svegli, o, ancora una qualsiasi band Sarah, sempre che la Sarah si fosse trovata a San Francisco e non a Bristol – e avesse prodotto esclusivamente flexi discs – oppure, ancora, richiamare i magnifici The Reds, Pinks And Purples, se Glenn Donaldson avesse scritto le proprie canzoni sotto l’effetto di sonniferi.
Il fascino di questo album risiede tutto nell’ipnotico e continuo (e virtuale) salto della puntina sui suoi solchi, nel fruscio che accompagna le cullanti note di ogni canzone, nei languori della voce di Karina (qualche volta doppiata dall’altrettanto languida voce di Mike) e nei riverberanti accordi delle chitarre, nel malinconico abbandono della sua musica.
A volte (quasi sempre) le parole non bastano per rendere le sensazioni e le emozioni suscitate da una canzone o un album. Nel caso dei Flowertown l’unico modo per comprendere come un album di ballate Lo-Fi, incise in maniera casalinga e senza pretese, possa risultare così affascinante e convincente è quello di chiudere gli occhi, alzare il volume e ascoltare. E ascoltare, poi, ancora e ancora.
A volte concedere una seconda chance è opportuno. In questo caso è doveroso. Non ve ne pentirete.
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