Quando vivi in un paese straniero riesci a capire meglio quali sono le differenze culturali fra paesi diversi. Lo capisci quando passi la Manica, e lo capisci principalmente nel momento in cui realizzi che, con tutti gli sforzi del caso, sarai per sempre italiano.
Ora però, basta con le speculazioni, perché, come dice Chet Faker, Talk is Cheap.
Chet Faker non è James Blake, a dispetto di quello che molta gente potrebbe credere al primo ascolto. Non è James Blake perché non è inglese, è australiano. E per quanto queste due nazioni possano condividere la stessa lingua, gli stessi usi e costumi (compreso l’amore inspiegabile per un estratto di lievito spalmabile che sbranano con voracità se spalmato su di una fetta di pane tostato e burro), in realtà gli abitanti dei due paesi sono molto diversi: introspettivi, riservati ed educatissimi i primi; caciaroni, presi-bene ed estroversi i secondi.
Tutto questo per dire che se Blake andasse a vivere per un po’ al sole, magari riuscirebbe ad aggiungere quell’easy-touch che Chet Faker non manca di aggiungere ad ognuna delle 12 tracce dell’album, facendolo mantenere sospeso in un equilibrio fragile: Built On Glass.
Nell’album, ci sono pezzi memorabili, dalla già menzionata Talk Is Cheap (addictive!), a Gold il passo è breve e non si può di certo passare indifferenti fra le note di To Me (forse la canzone più vicina al nostro JB); Cigarettes & Loneliness, un pezzo che ti fa capire perché fai bene a smetter di fumare fino a Dead Body che è la naturale conclusione delle cattive abitudini di cui sopra.
Un disco soul, elettronico che strizza l’occhio a quel movimento dubstep che ha più che altro seguito dentro la M25, ma con quel piglio australiano che rigenera le ritmiche sostenendole a mezz’aria. Si sa, è tutta una questione di equilibrio.
Voto 8. Nemo propheta in patria.
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