Non è una breve prosa moralistica questa, è un parlare sincero è un tentativo di rendere corporea la mente.
Io credo nell’anima. Credo nell’intoccabile, nell’indicibile, nell’inudibile. Perchè credo che dei sensi ci si possa servire anche al contrario.
Io credo nell’anima in vita e so che questo non vale del tutto, perché l’importanza di questo soffio, vento nel viale di ciliegi in fiori, deve essere eterna.
Ma di tutti i mondi possibili io, come voi, vivo in questo e degli altri ben poco mi importa, non per banalizzazione ma perché consideriamo il valore delle cose in relazione solo alla loro privazione. Il valore va riconosciuto nell’essenza (in quel in sé) così da poter essere amato, onorato e accettato.
L’altro giorno, una ragazza a cui tengo molto, mi disse che ha bisogno di credere, per non aver paura, nella sua immortalità e infinità. Non ho ribattuto (sarebbero state inutili giustificazioni sillogistiche) perché ogni credenza che può contribuire alla felicità e alla spensieratezza non va giudicata – e ti dico quindi cara ragazza che sarai immortale, eterna e infinita come una dea dell’Olimpo.
E l’anima esiste in ognuno di noi anche se si sottrae al principio della dimostrazione evidente. Ma c’è, e se non fosse così come si spiegherebbe il sostrato della voce di Julie Byrne? Come si spiegherebbe semplicemente Julie Byrne togliendo tutto quello che di umano ha?
Di lei, ancor prima che uscisse al completo Not Even Happiness (Gennaio 2017), ne hanno parlato i più influenti critici musicali e in ognuna delle recensioni (anche prima di questa ovviamente) si possono trovare le cinque stelline, cioè il totale e completo apprezzamento. Non ci sono stonature nel lavoro della giovane Byrne, né nella sua voce, quasi ultraterrena, quasi divina, né nelle liriche, che presentano una metrica piena di grazia.
Non so davvero come convincervi ad ascoltare brani come Melting Grid o Follow my Voice, per questo date retta solo a questo semplice consiglio: ascoltate e poi giudicherete. Sarà difficile svegliarsi dall’ipnosi di questa strana e splendida creatura americana.
Not Even Happiness è il risultato maturo di tutte le piccole somme dei lavori precedenti: You Would Love it Here (2012), Julie Byrne (2013) e Rooms With Walls and Windows (2015), in cui l’amore prende tutte le forme possibili, donandole.
Perché cos’altro ha fatto Julie Byrne se non un gesto d’amore? Se non dare profondità a un linguaggio ormai reso scarno, impoverito dalla disattenzione? Cos’altro ha fatto Julie Byrne se non arte? E nell’arte c’è l’anima.
Nel viale dei ciliegi in fiore, I Live Now as A Singer (ultimo brano di Not Even Happiness) è il vento che riposa i sensi.
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