Vieri Giuliano Santucci per TRISTE©
A volte faccio tanti km per il cibo (cfr. qui), a volte invece faccio molti km per la musica.
Per andare ad ascoltare artisti che, magari, difficilmente passano dall’Italia (cfr. qui e qui) o che, seppur raggiungono il nostro paese, non scendono fino alle latitudini romane (cfr. qui).
Qualche hanno fa uno di questi viaggi mi portò sulle spiaggie di Marina di Ravenna. Sabato scorso invece, finalmente, i Woods sono finalmente arrivati a Roma.
La serata al sempre accogliente Monk Club (all’interno della rassegna Rome Psych Fest) è avviata dall’opening della creatura Alt-(Psych)-Folk di Andrea Pulcini, che a nome Persian Pelican quest’anno calcherà anche il palco del Primavera Festival.
Questa sera si presenta in versione “full band” portando i pezzi dei suoi tre lavori in studio, ed in particolare quelli del più recente lavoro, l’ottimo Sleeping Beauty del 2016. Sempre a cavallo tra un folk psichedelico dalle atmosfere rarefatte e momenti più pop, il prodotto di Persian Pelican sembra davvero pronto (con merito) per aumentare il prorpio pubblico.
Dopo l’alt-folk marchigiano è il turno dei Woods, che si presenta sul palco col “quitetto base” (Jeremy Earl, Jarvis Taveniere, Aaron Neveu, John Andrews, Chuck Van Dyck). Non nego avere un particolare amore per la band di Brooklyn, ma altrettanto vero è che i Woods confermano sempre, anche dal vivo, il credito che si sono guadagnati negli anni.
Presto in arrivo con il decimo album in studio (Love Is Love, Maggio 2017) la band statunitense capitanata da Jeremy Earl arriva da un 2016 che ha visto l’uscita di City Sun Eater in the River of Light, un disco interessante ma più altalenante del bellissimo With Light and with Love del 2014.
Il live si apre subito con la bellissima Leaves Like Glass e prosegue alternando principalmente canzoni degli ultimi due lavori della band, senza però escludere qualche pezzo del passato (come farsi mancare la splendida Cali in a Cup) e qualche preview dell’imminente Love is Love.
Come sempre i Woods mostrano sia il proprio lato più folk (con ballads quasi stile Nashville, cit. Matteo Quinzi) che quello più propriamente psichedelico: se il primo è segnalato sempre dal cambio di chitarra di Jeremy (dall’elettrica all’acustica), il secondo si sviluppa in lunghe code o interemezzi lisergici ai già lunghi pezzi della band (come accade, per esempio, con la title track di With Light and with Love).
Se la mia personale preferenza ricade, forse (e sottolineo forse), per la parte più melodica della produzione della band, certo il pacchetto completo è di altissimo livello e perfettamente integrato. A testimoniarlo è proprio il pezzo con cui i Woods chiudono il proprio bis sul palco del Monk: una Moving to the Left da brividi, dove folk, pop e psichedelia convivono perfettamente tra le note della band.
A volte non serve fare troppi km per trovare un po’ di gioia (e questo vale anche per il cibo).