Ogni volta che penso a James Blake ho in mente un colore rosso arancione, con sfumature viola. È il colore del cielo sopra allo stage The Park di Glastonbury 2014.
Quello della volta in cui il sole tramontava fra le note di Retrograde, Overgrown e The Wilhelm Scream. La mia ragazza mi aveva lasciato solo per ascoltare Ellie Goulding. Io a correre fra lui e i Disclosure per non perdere i London Grammar e partire poi direttamente verso Londra. Evitare gli ingorghi e tornare a casa.
Ho pensato spesso a quella strada che guidava verso il futuro, alle due del mattino.
Nel nuovo album The Colour in Anything c’è una canzone che inizia cosi: “don’t use the word forever”. Fa venire i brividi. Mi fa venire in mente quanto era bello essere al centro del mondo, a Londra. La città in cui non riesci a fermarti mai.
Hai la testa che si riempie di cose da ricordare, a volte non hai tempo di consolidare le informazioni e già ne ricevi di nuove: bisogna essere spugne per apprezzarla, come diresti tu. Bisogna sapere che in ogni momento si ha modo di conoscere cose nuove, persone interessanti, paesi e lingue che non conoscevamo. Si vive nell’avanguardia passiva, non serve fare qualcosa di speciale per apprezzarlo.
James Blake è il più trasversale dei musicisti delle nuove generazioni e vive a Londra, dove è nato e cresciuto. C’è chi riconduce la sua trasversalità al genio che si mimetizza dentro a quel corpo sottile ed affusolato; chi invece razionalmente asserisce che è il suo modo di fare musica senza confini a renderlo tale.
Per me James Blake lo é perchè parla all’eterno: con quegli echi che rendono tutto offuscato non si riesce a delineare la forma del suo essere. Viviamo troppo a lungo per essere amati così tanto. Dice in F.O.R.E.V.E.R.
Ogni suo album è un percorso che si apre verso momenti di lucidità infinita. Sono i passaggi a renderlo magico. L’apertura di Radio Silence, Love Me in Whatever Way, I Need a Forest Fire (cantata con Justin Vernon), Always.
Ci sono tre pezzi che definiscono lo spessore del disco, sono quelli in cui si spoglia di manierismi e con delicatezza usa pochissimi suoni, il cantato quasi a cappella per aprire il cuore. Sono brevi passaggi, meno di tre minuti le prime due (FOREVER e The Colour in Anything) un po’ più lunga la terza, Meet in the Maze.
La sua musica è una strada di campagna nebbiosa che ti conduce verso il futuro, pensi di sapere dove ti porterà ma niente è certo, niente è per sempre. Music can be everything. È il suo congedo nell’ultima strofa dell’ultima canzone del disco.
La musica può essere tutto.
Pingback: TRISTE #Marsiglia – Top 10 2016 | Indie Sunset in Rome